Valeria Golino: «Ho conosciuto chi pratica l’eutanasia»

L’attrice al suo esordio da regista presenta a Udine e Pordenone il suo film “Miele” tratto dal romanzo di Mauro Covacich
Di Elisa Grando

TRIESTE. Un film che parla di morte, ma esprime un’immensa sete di vita. È “Miele”, l’esordio alla regia di Valeria Golino, che dopo più di settanta film come attrice ha deciso di mettersi alla prova dietro la macchina da presa per affrontare un tema delicato e attuale: il suicidio assistito. A produrre il film, con tutte le difficoltà e il coraggio che un argomento tanto scivoloso comporta, è la Buena Onda, fondata proprio dalla Golino insieme a Riccardo Scamarcio, suo compagno anche nella vita, insieme a Viola Prestieri. Sullo schermo invece nei panni di Miele, una ragazza che aiuta illegalmente i malati terminali decisi a terminare volontariamente la propria agonia fornendo loro il barbiturico letale, c’è la bravissima Jasmine Trinca. Il quartetto al completo incontrerà il pubblico friulano domani, alle 19.30 al Cinema Centrale di Udine e alle 20.45 a Cinemazero di Pordenone.

Quello della Golino è un debutto eccezionale: un film carico di significato ed emozioni che arriva dritto all’anima, non a caso scelto nella sezione Un Certain Regard al prossimo Festival di Cannes. Tutto nasce, anni fa, quando Valeria ha preso in mano il libro “A nome tuo” di Mauro Covacich, da cui il film è tratto: «Mi ha colpito la sua scrittura così nervosa e lucida, con una malcelata tenerezza verso la vita. Faccio l’attrice, tutto un altro mestiere, ma è stata la validità di questa storia che mi ha spinto a provare con la regia». Il lavoro di documentazione, insieme alle co-sceneggiatrici Francesca Marciano e Valia Santella, è stato intenso: «Le conversazioni con Covacich mi sono servite anche per capire la veridicità dei dettagli tecnici riguardo alle procedure del suicidio assistito. E ho incontrato un signore, in Francia, che fa il lavoro di Miele: è un anestesista che più volte ha aiutato illegalmente malati terminali a smettere di soffrire».

Nel film, però, si pone una forte questione etica: cosa succede se la persona da aiutare non è un malato fisico, ma qualcuno con una sofferenza psichica che vuole farla finita? «È una domanda alla quale non si può dare risposta assoluta: ogni storia umana contiene e in sé una risposta. Per questo ho fatto un film intimo, non sulla legislazione in merito». “Miele” è pervaso da una sorta di umana pietas, ma evita ogni retorica o drammatizzazione: «Sulla ricerca di questo equilibrio non dormivo la notte: ho sbattuto la testa su tutte le parole da usare, sull’avvicinare o meno la macchina da presa agli attori. Non volevo spettacolarizzare il tema, ma nemmeno evitarlo. Invece di fare le cose con approssimazione, come altre volte nella vita, ho filtrato tutto secondo la mia sensibilità». Dentro di lei ha lavorato inconsciamente anche la lezione assorbita dai registi che l’hanno diretta, «soprattutto Del Monte, Piccioni, Crialese o Capuano. Mi hanno influenzato in modo sotterraneo anche registi che non conosco ma che amo, come Jane Campion o Gus Van Sant. Nell’arte ci si appropria di tutto, ma poi il processo è sempre personale». Al centro del film c’è sempre Jasmine Trinca: «Era la mia Miele», dice sicura Golino. «Ci siamo permeate una nell’altra, anche perché come attrici ci assomigliamo: non siamo tecniche, ma vibranti. E poi Jasmine ha una cognizione del dolore dovuta alle sue esperienze che le permette di sentire le cose, di essere con tutta se stessa sul set». «Valeria mi fa un grosso complimento», risponde a distanza la Trinca. «Ci piace lo stesso tipo di recitazione: non per forza perfetta, ma che smuova qualcosa nell’anima». Per entrare nei panni di Miele, l’attrice si è trasformata anche fisicamente: capelli corti, un modo di muoversi più spigoloso. Rispetto al suicidio assistito, Jasmine ha le idee chiare: «Da cittadina, sono per la libertà e l’autodeterminazione del sé, finché non si fa del male al prossimo. Se una persona riesce coscientemente in una scelta tanto difficile come quella di terminare la propria vita, va rispettata e accompagnata. Nel nostro paese manca una vera e propria legislazione a riguardo: mi dispiace che le persone che hanno i soldi per potersi permettere un viaggio in Svizzera lo facciano comunque, mentre chi non li ha non abbia la possibilità di scegliere». La Trinca è comparsa da poco in sala anche nel film di “Un giorno devi andare” di Giorgio Diritti: di fatto, oggi è una star del cinema italiano, ma una diva defilata, che non ama apparire a tutti i costi: «Non so fare bilanci né previsioni di carriera: faccio scelte qui e ora, ma non starei bene a fare un certo tipo di spettacolo. Ho iniziato a recitare a 18 anni in “La stanza del figlio” di Moretti senza nessun tipo di formazione. A questo punto del mio percorso, invece, come attrice sento di aver fatto davvero uno scatto di crescita».

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