Una scuola che insegni a scrivere (e a parlare)

Le voci che si sono levate di recente per abolire le prove scritte dell’esame di maturità, e in particolare il tema di italiano, rappresentano un sintomo che non riguarda soltanto la prova finale ma l’intero percorso della nostra scuola superiore.
Pier Aldo Rovatti

TRIESTE Le voci che si sono levate di recente per abolire le prove scritte dell’esame di maturità, e in particolare il tema di italiano, rappresentano un sintomo che non riguarda soltanto la prova finale ma l’intero percorso della nostra scuola superiore. Essa trasmette ai giovani una ricchezza indiscutibile di stimoli culturali e sociali, però produce anche delle povertà non marginali. Si può arrivare alla fine del percorso senza una conoscenza apprezzabile della lingua, soprattutto senza avere imparato a scrivere.

Quasi sempre nelle nostre scuole l’esercizio di scrittura risulta insufficiente, spesso addirittura mancante. I ragazzi non amano i “componimenti”, di solito li eseguono con fatica o controvoglia, tanto in classe quanto a casa, nonostante gli sforzi che spesso gli insegnanti fanno per renderli più accettabili attraverso le risorse della narrazione. Spingere gli studenti a “narrare” gli argomenti proposti, piuttosto che a “trattarli” in modo asettico e disciplinare, può funzionare come un incentivo alla voglia di scrivere, non risolve però la questione: non toglie un fondo di resistenza molto generalizzato.

Un tempo si esortava soprattutto a leggere la letteratura. Oggi non si sa bene come contrastare l’invadenza della comunicazione digitale nell’esperienza degli adolescenti. Le lettere sembrano ormai pratiche arcaiche, le stesse mail vengono preferibilmente sostituite da immagini e video, o da telegrafici messaggini. Ne risulta che la scrittura corrisponde sempre meno alle esigenze della fretta di comunicare, diventa sempre più qualcosa di antico e scarsamente utile. Il compito degli insegnanti consapevoli di questa situazione non è davvero facile: ciascuno di loro capisce bene che non basta contrastare la corrente rafforzando la pratica dei temi e dedicandosi di più alla cosiddetta “correzione” dei medesimi, per la quale occorrerebbero tempi che non esistono nell’attuale organizzazione delle lezioni.

Forse il punto sta nel rapporto tra parola scritta e parola parlata, dunque nella reciprocità tra parlare e scrivere. Di solito si tende a scindere le due esperienze come se la lezione dell’insegnante e le parole che lo studente riesce a mettere insieme al momento della verifica orale (leggi: interrogazione) non avessero alcuna incidenza sulle pratiche di scrittura. Un luogo comune racconta che, mentre per esempio in Francia gli studenti scrivono con facilità e parlano meno facilmente, qui da noi potremmo verificare un atteggiamento opposto. Sta di fatto che normalmente tutti pensiamo che scrivere è una cosa e parlare qualcosa di diverso, mentre le due esperienze si legano tra loro: imparare a scrivere e imparare a parlare possono essere considerati una medesima forma di apprendimento, nel quale una modalità rafforza l’altra.

Ovviamente di mezzo c’è la lingua, la sua storia e le sue strutture, poiché in gioco è l’apprendimento concreto, non solo astrattamente libresco, dell’italiano: credo che nessun tipo di insegnamento o genere di scuola possa prescindere da questa priorità della lingua viva e di conseguenza dalla capacità di ciascun insegnante di comunicarla ai propri studenti, a prescindere dalla materia insegnata. Il che si ripercuote anche sulla formazione degli stessi insegnanti. Ho l’impressione che siamo abbastanza lontani da una simile consapevolezza didattica che presupporrebbe anche la falsificazione di molti presupposti sulla incompatibilità tra insegnamento umanistico e insegnamento tecnico.

In realtà, e non solo nel mondo della scuola, tutti ci comportiamo come se parlare e scrivere fossero pratiche diverse. Non riusciamo quasi mai a convincerci del legame che invece le unisce: passi nella vita quotidiana, dove la scrittura viene sempre più penalizzata, non può però essere tollerato nella scuola che ha a che fare ogni giorno sia con le parole vive sia con la lettura dei libri. Le pagine del testo (del cosiddetto “libro di testo”) possono restare lettera morta senza le parole vive dell’insegnante e senza la capacità dello studente di “tradurle” a propria volta in un linguaggio vivente.

Si dice che lo studente prende “appunti” mentre ascolta la lezione e mentre si prepara studiando il libro di testo, ma di che si tratta? Il bistrattato appunto non è forse una sorta di intercapedine tra parola parlata e parola scritta? A pensarci bene, non è una pratica così banale né così secondaria (come non lo è la pratica del riassunto): vi rimbalzano infatti le due facce della medaglia, il parlare e lo scrivere, che andrebbero considerate con attenzione proprio per tale caratteristica. —

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