Un porcile nell’ex lager per i rom

Praga decide di non smantellare l’allevamento della vergogna a Lety: nel campo morirono di stenti 240 bambini

BELGRADO. Tra il 1942 e il 1943 vi transitarono migliaia di rom. Per la maggior parte di loro fu un tragico “fine corsa”. Da più di 30 anni, in fabbricati costruiti dove sorgevano le baracche dei prigionieri, scorrazzano centinaia di suini. Maiali che vengono trattati meglio di coloro che perirono di stenti e violenze nel lager di Lety. Siamo in Cechia, non lontano da Praga, nella patria di uno dei più nefasti lager della Seconda guerra mondiale. Un lager per rom.

Nel campo di Lety, secondo contestati dati ufficiali, su 1400 internati ne morirono almeno 300, tra cui 240 bambini. Altri 800 furono spediti ad Auschwitz in un viaggio di sola andata. Ma a differenza di Auschwitz, Lety non è un luogo di memoria, vilipeso com’è dai grugniti e dal lezzo dei 10mila suini di un allevamento privato. E Praga ha deciso, ancora una volta, di stare a guardare. «Non voglio fare false promesse, al momento non ci sono fondi» per sgombrare l’allevamento, ha dichiarato il premier ceco, Petr Necas, durante una cerimonia di commemorazione svoltasi una settimana fa al monumento in memoria delle vittime, eretto vicino all’azienda. Parole che hanno irritato le organizzazioni rom, ma che non hanno risvegliato la coscienza della gente. Il perché è semplice, secondo Paul Polansky, poeta americano, fra i più influenti attivisti per i diritti dei rom. Polansky fu il primo a provocare scandalo a Praga nel ’98 con il libro “Black Silence”. Libro che, grazie a ricerche su documenti inediti e a interviste ai pochi sopravvissuti, squarciò il velo dell’oblio su Lety. L’autore ancor oggi non si stanca di denunciare l’inazione di Praga. Inazione che nasconderebbe la volontà dei cechi di essere percepiti solo «come vittime dei tedeschi» durante l’occupazione. Secondo Polanski, «gli storici, i politici, l’opinione pubblica non vogliono che sia scritta la verità su cosa accadde durante la guerra.

Ci furono anche collaborazionisti cechi, che organizzarono propri campi di concentramento e si macchiarono di genocidio», contribuendo allo sterminio del 90% dei circa 10mila rom locali. Tanti perirono a Lety, accusa l’attivista-poeta, dove si compì «una tragedia terribile» per la sola volontà dei cechi, senza che i nazisti avessero alcuna parte. Lety – e questo è il fattore più bruciante per la memoria collettiva nazionale -, era controllato dalla polizia ceca «e non c’erano tedeschi», ribadisce. E furono cechi i beneficiari del lavoro degli schiavi del campo, prima ebrei e criminali, poi rom. Fu costruito, secondo Polansky, vicino alle terre degli Schwarzenberg - famiglia che ha dato i natali all’attuale ministro degli Esteri di Praga -, per rifornire di manodopera i grandi proprietari terrieri della regione. Ma Lety non fu solo lavori forzati. «Le testimonianze dei sopravvissuti rivelano una orribile storia», racconta poi Polansky. La storia di «migliaia di persone portate lì senza essere registrate», di vittime «gasate in furgoni, seppellite in fosse comuni». Numeri molto più grandi di quelli contenuti nelle statistiche ufficiali. «Ho scoperto che si censivano tanti rom con lo stesso numero. Ci fu fin dall’inizio la volontà di nascondere quante persone passavano per Lety». E di tifo, la causa più ricorrente di morte secondo le autorità del campo, morirono poche decine di internati, gli altri di fame e maltrattamenti, assicura Polansky.

Malgrado le denunce, nulla sembra però destinato a cambiare. La giustificazione ricorrente è sempre quella. Mancano i fondi, secondo alcuni esperti circa 10-15 milioni di euro. I maiali possono dunque restare, mentre Lety sopporterà un nuovo oltraggio. «Dopo la pubblicazione di Black Silence, i vari governi che si sono succeduti hanno promesso di far spostare l’allevamento. Nessuno l’ha fatto. Nel 1998 i suini erano 5mila, oggi sono 20mila. Si continua a permettere ai maiali di defecare dove bambini rom furono lasciati morire di fame o uccisi», recita la prefazione del libro di Polansky. Un prologo che rimane tristemente attuale.

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