Un pezzetto di Trieste per il “termometro” del mare
TRIESTE Un team internazionale di scienziati, tra cui tre italiani, ha individuato una serie di caratteristiche comuni a tutti gli ecosistemi marini, che può essere utilizzata per analizzare il loro stato di salute. In pratica, è stato osservato che la biomassa, cioè il peso degli organismi, tende avere un valore massimo a un livello intermedio della catena alimentare.
La posizione di questo punto di massimo rappresenta un indicatore dello stato complessivo dell’ecosistema. Questa scoperta mette quindi a disposizione di ricercatori e amministratori un nuovo strumento per identificare cambiamenti e agire rapidamente al fine di aumentare la resilienza delle comunità biologiche e la sostenibilità dello sfruttamento delle risorse marine.
Lo studio, appena pubblicato sulla rivista scientifica Trends in Ecology and Evolution, è il frutto della collaborazione di un team di ricercatori che operano in istituzioni di sei diversi Paesi, coordinati dal National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa). A livello italiano hanno partecipato Simone Libralato e Cosimo Solidoro dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (Ogs) di Trieste e Fabio Pranovi dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Grazie all’analisi dei dati Ogs e Ca’ Foscari hanno contribuito alla messa a punto di un modello teorico frutto anche di precedenti analisi degli ecosistemi del Mar Mediterraneo.
Per studiare il funzionamento degli ecosistemi marini, i ricercatori propongono di utilizzare il concetto delle proprietà emergenti. «Si tratta di quelle proprietà che si manifestano a un certo livello di complessità (nel nostro caso, l'ecosistema), ma non sono presenti a livelli di organizzazione inferiori» ha spiegato Fabio Pranovi. Nel caso specifico, l’idea del team è di analizzare come la biomassa complessiva presente nell’ecosistema si distribuisca attraverso i diversi livelli trofici, che identificano la posizione di un organismo nella catena alimentare. Questo permette di evidenziare la presenza di un "pattern" ricorrente: l’indicatore studiato deriva dal rapporto tra quantità e ruolo degli organismi che popolano l’ecosistema e si dimostra applicabile anche in situazioni con pochi dati disponibili, utilizzando, ad esempio dati provenienti dall’attività di pesca».
«Gli ecosistemi marini sono estremamente complessi e questo crea notevoli difficoltà per la loro gestione - commenta Simone Libralato -. Grazie all’analisi di un gran numero di dati siamo riusciti a definire un nuovo modo per valutare la salute dei mari e degli oceani da usare in un’ottica di gestione sostenibile delle risorse. In sostanza abbiamo definito un modello di valutazione che tiene conto allo stesso tempo di molti processi marini e che è estremamente sensibile alle perturbazioni: uno strumento fondamentale per individuare un buon stato ecologico».
Fino a oggi, per misurare la salute degli ecosistemi marini, i ricercatori hanno dovuto valutare la condizione delle diverse specie e dei diversi habitat individualmente. Avere a disposizione un approccio facile da adottare, che consenta di monitorare ciò che accade nell’ecosistema nel suo insieme e ovunque sul pianeta, rappresenta dunque un notevole passo avanti nella gestione degli ecosistemi marini.
«Per capire come funziona il metodo che abbiamo messo a punto, possiamo immaginarlo come una sorta di termometro, utile per capire la salute del sistema nella sua globalità, ossia considerando non un singolo organismo ma tutti gli organismi dell’ecosistema nel loro insieme», precisa Cosimo Solidoro. Questo permette di evidenziare quanto un ecosistema stia soffrendo degli effetti dovuti a molteplici fattori di stress, per esempio la pesca eccessiva, l'inquinamento e le specie invasive».
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