Un medico triestino per le madri africane
L’elastico di un guanto di lattice ben rabberciato può servire a chiudere il cordone ombelicale di un neonato. Un sapone da cucina, o anche solo dell’acqua, vanno bene per “disinfettare” le mani prima di un’operazione. È l’Uganda. È il Mulago Hospital, nella capitale Kampala. Un edificio decoroso, in cui le sale di attesa per le partorienti sono i balconi esterni o il porticato, tutti rigorosamente all’aperto, stipati di stuoie. Lì le future mamme attendono il loro turno sperando che tutto fili liscio. Ed è lì che è iniziato un progetto di vita partito da Trieste. L’idea è venuta a Francesco De Seta, ginecologo dell’Unità di ostetricia e ginecologia dell’ateneo triestino, che ha trascorso – da volontario - una settimana al Mulago. Per condividere con i medici locali battaglie e frustrazioni e, spesso, la scelta dolorosa di salvare la madre abbandonando al suo destino un neonato con problemi.
A Kampala De Seta ha elaborato l’idea di un progetto che potrebbe aiutare a salvare la vita a 10-15 donne la settimana, le stesse che per una gravidanza extrauterina subiscono interventi invasivi (per quei luoghi) rischiando la vita. Con Davide De Santo, dirigente medico del Burlo Garofolo, Joe Hwang, responsabile del centro di medicina perinatale del Mercy Hospital a Des Moines (Iowa) e Gino Larosa, docente della scuola di specialità di ostetricia e ginecologia di Trieste, De Seta sta organizzando l’acquisto di un apparecchio per laparoscopia che eviti ai medici ugandesi interventi invasivi.
In laparoscopia si praticano tre piccoli fori sull’addome, uno per un endoscopio ottico e due per gli strumenti chirurgici, attraverso i quali si accede all’interno e si opera la paziente. Meno tagli, minor rischio di infezione, minore invasività. «In una realtà come Kampala – dice il medico – la diagnostica spicciola e le piccole operazioni come le gravidanze extrauterine sono assai più pericolose che in un ospedale italiano. Un intervento chirurgico banale può essere drammatico».
Con una media di 32mila parti l’anno, una mortalità materna tra le più alte al mondo (345 su 100mila) e un’alta mortalità perinatale (79 su mille nati), Kampala è lontana dalla sonnolenta routine di città come Trieste. Dice De Seta: «Adottando più spesso la laparoscopia si potrebbe ridurre molto la mortalità materna». Un’apparecchiatura laparoscopica già esiste ma è vecchia e mai utilizzata. Serve uno strumento nuovo, e del personale che possa gestirlo quando gli amici italiani non sono più lì. «Basterebbero 150 mila euro per apparecchio e formazione professionale», precisa De Seta. L’Organizzazione mondiale della sanità ha già concesso il patrocinio all’iniziativa. Ma, ovviamente, non è sufficiente.
Cristina Serra
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