Un imprenditore triestino: «Sono stato assolto in tribunale ma strozzato dallo Stato»
TRIESTE Cinque anni di battaglie giudiziarie per truffa ed evasione fiscale conclusi con un’assoluzione piena perché «il fatto non sussiste». Ma nel frattempo gli hanno fatto chiudere la ditta, sequestrato il conto corrente e mangiato la pensione. Non bastasse, ecco la mazzata del fisco che pretende comunque una valanga di soldi - 700 mila euro - nonostante l’assoluzione. Il motivo? La giustizia tributaria non parla con quella penale. Piaccia o no, seguono binari distinti.
Ha lo sguardo sfinito il settantaseienne triestino Franco Schnautz, ex imprenditore nel settore della distribuzione alimentare. Gli hanno portato via tutto e ormai non sa più a che santo votarsi. Oggi chiede di raccontare la sua vicenda a giornali e tv. «Lo Stato mi ha strozzato», dice.
La storia di Schnautz è una contraddizione nella contraddizione. Molto semplicemente perché se «il fatto non sussiste», cioè se il commerciante non ha truffato nessuno, perché il fisco lo rincorre ancora? Lo Stato vuole lo stesso i soldi evasi, anche se per colpe di altri. In effetti il settantaseienne, a ben vedere, è innanzitutto vittima di una clamorosa truffa. L’evasione fiscale che i magistrati gli hanno contestato per anni, con quel calvario giudiziario, nasce proprio da un raggiro subìto anni fa.
Schnautz era titolare di una società di trasporti, la Di.be.ma., fondata nel ’63 e specializzata nel mercato delle televendite dei prodotti alimentari. Lavorava nel Nord Est con dipendenti e collaboratori, tra cui alcuni padroncini - autonomi e con partita Iva - per le consegne.
Tutto fila liscio fino al 2012: è in quell’anno che la Guardia di finanza avvia una serie di accertamenti fiscali sulla società. Le Fiamme gialle ripercorrono le annate antecedenti arrivando al 2008. E nelle verifiche incrociate spuntano svariate fatture sospette. Sono quelle rilasciate ogni mese da uno dei padroncini al quale l’imprenditore si era appoggiato per i servizi di trasporto: un sessantenne completamente ignoto al fisco. E quindi quelle fatture sono completamente false. Ma Schnautz non lo sa. Un problema che, quando viene a galla, costa seri guai: il settantaseienne, come aveva fatto fino a quel momento con tutti, aveva dichiarato anche le fatture del collaboratore. E dalle quali - anno dopo anno - si era premurato di scaricare l’Iva.
Chiamato a testimoniare, il padroncino riferisce ai finanzieri di non aver mai lavorato per l’imprenditore. Nega. E monta una storia. «Noi eravamo d’accordo così - afferma il sessantenne - facevamo fatture per operazioni inesistenti. Poi facevamo a metà dei soldi dell’Iva...». Schnautz è tirato in ballo con accuse precise. Ed è in trappola. Ma mentre il padroncino patteggia la pena, nel processo è l’imprenditore a figurare come evasore.
Scatta così sia l’istruttoria tributaria, che si chiude nel giro di un anno con la sentenza di colpevolezza e con la richiesta di 700 mila euro per l’intero periodo che va dal 2008 al 2013, che quella penale. Che invece dura cinque anni, fino al 2017. Un lustro in cui si alternano altrettanti giudici e in cui Schnautz si trova con il conto corrente bloccato e la casa pignorata. Le banche, nel frattempo, chiudono i rubinetti: niente prestiti né Fidi. L’imprenditore deve quindi abbassare le serrande della ditta e licenziare i dipendenti. Va in pensione ma gli pignorano pure un quinto di quella.
Durante il processo penale, grazie alle indagini difensive dell’avvocato Claudio Giacomelli, che tutela il settantaseienne, viene finalmente a galla la verità. Schnautz è stato vittima di una truffa. Ed è per questo che ha evaso il fisco. Il padroncino, peraltro, aveva architettato lo stesso trucchetto con altri imprenditori.
Ma dopo cinque anni il settantaseienne ha perso tutto. Anche se «il fatto non sussiste». Oggi vorrebbe che quei 700 mila euro gli fossero cancellati. Finora però nessuno gli ha dato ascolto. E vive con 770 euro di pensione: il minimo vitale che la legge non può pignoragli. —
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