Un film di Paolo Rumiz sulla Grande guerra
Ho buttato la picozza e i ramponi in cantina. Sono tornato con gli occhi pieni di luce, dai ghiacciai dell'Ortles, dove si è concluso il viaggio di “Repubblica” iniziato due mesi fa a Trieste sul fronte della Grande Guerra. È stata un'esperienza sconvolgente perché ho toccato con mano qualcosa di inconcepibile, un po’ come scavare negli strati di un'era geologica perduta. Tutto è successo solo l'altro ieri, eppure sembra lontanissimo.
Il film che abbiamo presentato alla sala Tripcovich è anche un viaggio alla verifica di ciò che siamo diventati. Esso mostra che il secolo trascorso dal 1914 ci mette di fronte a una vera e propria mutazione della specie. I fanti del Piave solo più vicini alle legioni romane che ai nostri militari in Afghanistan, che sono geneticamente e culturalmente un'altra cosa. Ciò che hanno fatto allora i soldati italiani, austriaci, francesi, magiari, russi o croati è semplicemente irripetibile.
Scavare nel ghiaccio, dormire nel fango e nel piscio, assaltare alla baionetta con trenta chili sulle spalle, portare cannoni a quasi quattromila metri. I ragazzi di oggi andrebbero in crisi in poche ore in situazioni in cui i soldati del '14-'18 resistettero per mesi. Ho tentato in tutti i modi di avvicinarmi a loro, ci ho provato leggendo i grandi classici di guerra negli stessi luoghi delle battaglie, dormendo dove si erano consumate le carneficine, sudando in divise di panno in piena estate. Ma non è bastato. Ho compiuto questo viaggio accompagnato da un disperante senso di incredulità.
Con Alex Scillitani, il regista, abbiamo percorso e filmato chilometri di fronte. La linea delle trincee italo-austriache, lunga 1500 chilometri, si è rivelata una delle strade panoramiche più strepitose d'Italia. L’unica che sale e scende a quel modo, e soprattutto l’unica che sale alla quota delle nevi eterne. Abbiano verificato che rimetterla in uso avrebbe un valore enorme, anche turistico, capace di andare ben al di là degli anni del centenario. La visione offerta dal Pasubio, dall'Ortigara o dall'Adamello è paesaggisticamente pazzesca. Offre visioni di sintesi dell'Italia del Nord inimmaginabili altrove.
Abbiamo approfittato di questo viaggio, delle pagine di “Repubblica” e di questo filmato che sarà diffuso a decine di migliaia di copie, anche per spiegare agli italiani chi siamo davvero, noi dell'ultima frontiera. Nel film compaiono molti triestini, a partire da Marina Rossi e Lucio Fabi, storici di cose militari, dal generale degli alpini Bruno Petti al presidente della Lega Nazionale Paolo Sardos Albertini, dal giornalista “mitteleuropeo” Paolo Parovel al signor Albino Sosic figlio di un combattente in Galizia, per non parlare dal ricercatore e collezionista Roberto Todero e dell'amico Nereo Zeper, che dirige un coro da “osmiza” diviso fra canzoni tricolori e quelle del “povero nostro Franz”, Edi Kante.
Credo che la storia delle nostre terre non abbia mai avuto una simile evidenza sulla stampa nazionale (tredici puntate su ventisette): lo dimostra il gran numero di lettere che ho ricevuto da tutta Italia. «Non sapevo che le cose stessero così», mi hanno scritto napoletani, sardi o milanesi, nelle stesse missive che magari contenevano commoventi ricordi dei loro antenati alpini o artiglieri sotto il Tricolore.
Tutto mi dice che il centenario europeo rappresenta una grande occasione, soprattutto per il Friuli Venezia Giulia e il Trentino. Il Quattordici è l'anno che fa la differenza di queste terre col resto del Paese, quello in cui noi di frontiera possiamo avere l'occasione di spiegare all'Italia la nostra diversità, dire per esempio che il novanta per cento dei nostri Caduti hanno combattuto per un'altra bandiera. Limitarci, con le celebrazioni, al 24 maggio del ’15 significherebbe ignorare la storia di quelle stesse terre per conquistare le quali seicentomila ragazzi italiani sono andati a morire.
Anche noi di frontiera abbiamo le nostre colpe e le nostre omissioni. Forse in nessun luogo al mondo ci sono stati tanti caduti per chilometro quadrato come sul Carso di San Michele, in provincia di Gorizia. Nonostante questo primato, le nostre trincee fanno schifo. Gli sloveni le tengono meglio, anche se sono state scavate dai nostri fanti. Se non fosse per qualche centuria di appassionati che curano alcuni siti, tutto il fronte sarebbe sommerso dall’ortica. Un clamoroso autogol, attribuibile non solo a scarso amor di patria, ma anche anche alla nausea per certo patriottismo necrofilo che per troppo tempo ha campato di quelle ossa, considerando quei morti una sua rendita politica esclusiva. Le omissioni sui vinti ricadono spesso sui vincitori: ed ecco che gli ossari della Grande guerra, in gestione a Onorcaduti, versano in stato pietoso. Sul Tonale, il sacrario è circondato da bancarelle stile mercati nel Tempio. Oslavia ha il tetto rotto. Bassano è chiusa. Redipuglia stessa perde pezzi. Spesso gli orari di visita escludono il fine settimana. Nessun paragone con i piccoli cimiteri austroungarici, o inglesi, o francesi in terra italiana, assai meglio curati.
Bisogna dare aria alla memoria. Lo dico anche per evitare che il centenario fomenti turbolenze politiche nei territori ex asburgici. I trentini sono consci della loro diversità. Essi dividono con i cugini sud-tirolesi l'orgoglio “austriaco” per grandi istituzioni come l’Ufficio tavolare, sconosciuto al resto del Paese, o per una alfabetizzazione decisamente migliore di quella sabauda. A Trieste non se ne parla: i nuovi autonomismi municipalistici rispecchiano in decalcomania i baffi di Franz Josef. Essi crescono e trovano fondate ragioni nel disinteresse italiano per tutto ciò che fece grande Trieste un secolo fa: navi, porto, ferrovie.
La politica non trascuri il fatto che il centenario, miscelandosi alla crisi economica che ci stringe, rischia di accendere a Nordest un derby di appartenenza pro o contro Roma. A Trento ha visto la gente scannarsi in famiglia sulla questione di Cesare Battisti, martire per gli uni e traditore per gli altri. Qualcosa di simile può accadere a Trieste. La memoria della catastrofe, unita alla crisi di oggi, divide invece di unire. Il governo ne tenga conto, prevenendo nostalgie passatiste con l'onestà della memoria.
Ho fatto delle proposte al Comune di Trieste per una grande iniziativa in merito. Conto che sappia farlo, anche per ricuperare lo svantaggio col Trentino, che ha già censito i suoi caduti sul fronte russo e prepara da anni commemorazioni “bilaterali” di valore europeo. Trieste, l'Istria e il Goriziano posseggono una rete di memorie che sarebbe sufficiente mettere in rete senza spese eccessive. Lo dico anche perché tutto in questa città, a partire dai musei e dai grandi contenitori del fronte mare, indica la difficoltà a dare della città una visione diversa da quella per cui Trieste fu resa emporio di un impero, sede di cantieri, grandi compagnie di navigazione e assicurazioni.
Essere terminal petroli o farci requisire mezzo porto per regalare un rigassificatore alle multinazionali non è la nostra vocazione, e spesso ho l'impressione allarmante che saremo inghiottiti da un buco nero se non sapremo spiegare rapidamente chi siamo e cosa vogliamo sulla base di una visione corretta del nostro passato.
Il mese prossimo sarò a Bruxelles a dibattere questo tema con Jacques Delors e Valéry Giscard d'Estaing. Nella Ue questo centenario è vissuto male, perché si teme, con le celebrazioni, di irritare questa o quella nazione. È una visione perdente, fatta di lbari e tamburi, di Champs Elisées e archi di trionfo, che perpetua vecchie ipocrisie e non tiene conto del fatto che tutti quei ragazzi creparano o soffrirono nello stesso fango. Anche l'Europa dunque, non solo l'Italia o le terre “ciapade col s’ciopo” nel '18, rischia di perdere un'occasione. Conto di poter dire ai nostri partner europei che proprio i territori “di mezzo” come la Venezia Giulia, o il Trentino, ma allo stesso modo l'Alsazia, la Transilvania o la Polonia del Sud, possono, narrando una storia “plurale” o “in bilico” dalla posizione privilegiata di una terra di nessuno, scrivere una celebrazione veramente europea.
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