Un capitano di fregata che vedeva le navi dall'ufficio

Si intitola "La terra vista dall’acqua" il nuovo racconto di Federica Manzon ambientato in una Trieste sospesa tra la realtà e la fantasia. Ecco la terza puntata, la prima scritta sulla base delle foto inviate dalla lettrice Sara Macovez. Ma il gioco continua. Ai lettori i suggerimenti sulla continuazione della trama: mandate foto a racconti@ilpiccolo.it
Foto Bruni 08.02.14 Ponte Rosso,ombrelloni e verande
Foto Bruni 08.02.14 Ponte Rosso,ombrelloni e verande

“Te sa picio che tu papà pilota una nave? El xe un capitano de fregata” mi aveva detto la parrucchiera di mia madre mentre aspettavo che le colorassero i capelli. Io me ne stavo con i miei fogli da disegno dietro la porta d'entrata, sperando che nessuno si accorgesse di me. Mia madre si era voltata stringendo gli occhi chiari come a mettere a fuoco un'immagine che le sfuggiva, un miraggio.
Chissà se anche lei credeva alla storia del capitano perennemente richiamato sul mare. Se come me lo pensava alto con le spalle larghe e il mantello al vento, una cicatrice sulla guancia a testimoniare battaglie lontane cui era sopravvissuto. Forse con le amiche cercava di darsi un tono facendo di lui un eroe da soap opera. A me non raccontava nulla. Mi metteva in guardia dai pericoli dell'acqua e si rifiutava di mandarmi in piscina come i miei compagni di classe. Così sono cresciuto pauroso, con il torace stretto dei bambini malaticci e con un culto spropositato per i pirati.

Un racconto da immaginare per Il Piccolo
La scrittrice Federica Manzon

Solo molti anni dopo sono riuscito a vedere mio padre per quello che era davvero: un uomo di cinquant'anni con labbra grosse da femmina, bicipiti muscolosi e la pancia appesantita di un vecchio, la maglietta bianca spiegazzata dai quotidiani viaggi in treno per Monfalcone.
A vederlo così, è chiaro, mi hanno aiutato le lettere che conservo nel casetto sottocoperta. Era anche lui un terrestre, e dei più miserabili. Costretto ogni giorno a prendere un treno sporco e in ritardo, che lo portava in un ufficio con l'unica finestrella affacciata sul cantiere navale. Una stanza in cui combattere il gelo a colpi di grappa scadente e dove in estate si ribolliva. I suoi compiti erano privi di responsabilità e non sono del tutto sicuro che il suo grado in Marina sia stato quello che mi ha affascinato per tutta l'infanzia: "capitano di fregata", suonava battagliero e duro. Non fece carriera, né a terra né in mare. La sua mancanza di talento era spesso scambiata per buon carattere e non si fece nemici.
E se nel mio ricordo infantile era un eroe da mille leghe, questo lo si deve solo al fatto che aveva il fascino dei deboli: quello che si esercita con i bambini o con le persone da poco, quello che fa gonfiare il petto di un'aria inutile. Mia madre ne fu affascinata, al punto da odiarlo per tutta la vita, per il solo fatto che la sedusse e poi se ne andò, lasciando dietro di sé una leggenda di cartapesta.
Non era un impavido che affrontava tempeste e abissi marini. Era un terrestre che passava le sue giornate nelle carrozze dei regionali e non si curava della sua famiglia. Se mia madre l'avesse capito forse avrebbe potuto evitarmi tutto quello che è successo dopo e ora non sarei qui. Su questa barchetta a lucidare le lenti del binocolo perché mi facciano vedere quello che non riesco a immaginare. Ve l'ho detto, avrei dovuto trasferirmi prima quaggiù, da qui le cose si vedono con più chiarezza.

La strana fuga dalla vita in una barca sul canale
Il Canal grande di Trieste in una foto di Francesco Bruni

Guardate il musicista ad esempio. Quando vagavo per le strade della terraferma cercando di coglierlo inaspettatamente, non lo incrociavo mai. Sembrava un fantasma dotato di un certo tempismo e si volatilizzava ogni volta che sbucavo davanti alla chiesa.
Poiché per tutta la giovinezza mi sono allenato a proiettare sugli sconosciuti i desideri e le paure. Non è stato difficile immaginare il musicista come un'anima chiassosa e piena di vita, un seduttore nato, attratto da donne pericolose. Avevo bene in mente il caso. Per anni ho pensato a lui come l'abile corruttore che sceglie la più difficile tra le prede per puro svago. E invece guardalo qui, con la bocca spalancata e l'aria ebete, il contrabbasso malamente appoggiato ai gradini della scalinata di Sant'Antonio. Spia fotografi e scenografi mentre allestiscono un set artificioso attorno alla modella, e non osa avvicinarsi.
È molto bella, come è naturale, essendo una modella. Si lascia acconciare i capelli con aria da bambola, le ritoccano il trucco sciolto dal sole, le portano una bibita con ghiaccio e il timido musicista si avvicina di mezzo metro, nasconde l'imbarazzo cercando qualcosa nella borsa degli spartiti. Lei gli sorride.
Il sorriso naturale di una donna quando incontra uno sconosciuto e sa già, in un istante, come andranno a finire le cose tra loro. Sa già che lui le si avvicinerà con una scusa banale, lei risponderà cortese ma non lo lascerà andare via. "Hai fretta? Ti va di farmi compagnia per un poco?" e siederanno a un tavolino lungo il Canale. No, era in una piazza più in ombra, quella volta qualche tempo fa.
La conversazione sarà area come un aquilone e loro si preoccuperanno solo di mandarla avanti leggera per potersi guardare il più a lungo possibile. Poi arriveranno altre persone, amici della donna, e lui se ne andrà educatamente. Senza un briciolo di speranza. Ma lei gli andrà dietro di pochi passi: "Ci vedremo, ci vedremo ancora" dirà senza dargli un appuntamento preciso. Ma si rivedranno quei due, è ovvio che si rivedranno - vicino all'acqua naturalmente.

Quel giorno al Luna Park ho visto le lacrime sul volto di mio padre
23 Aug 2012, Santa Cruz, California, USA --- Rides on Santa Cruz Beach Boardwalk --- Image by © Richard T. Nowitz/Corbis

Ovviamente mi sbaglio, confondo una realtà passata con il set fotografico che mi sta davanti. La modella è bellissima, ma non ha capelli chiari né giunture sottili, e l'iride sotto gli occhiali da sole non sarà turchina. Mi sbagliavo anche sul musicista. Per mesi mi sono dannato l'anima dipingendolo come un Casanova capriccioso. Invece eccolo qui, seduto sui gradini sotto le colonne ad ammirare in estasi una bellezza in posa senza avere il coraggio di rivolgerle la parola e tanto meno di suonare per lei.
Per un attimo ho la tentazione di chiamarlo, di farlo avvicinare alla mia barchetta ora che non lo temo più, e di trasformarlo in un alleato. Chiedergli nel minimo dettaglio informazioni e date, senza farlo sospettare di nulla. Nessuno qui nella piazza deve sapere chi sono io. Sto quasi per fargli un cenno, ma la modella mi precede. Dice qualcosa abbassando il mento e lui scatta in piedi, con quella sua valigia di spartiti al polso. Lo lascio andare. Rimetto al collo il mio binocolo. Lo punto nuovamente verso il palazzo, al primo piano, sopra le grandi tende bianche del bar, sotto il lampione che di notte si riflette sui vetri rendendomi difficile la vista. Anche oggi, c'è un'ombra poco distante dalle finestre della camera da letto. Ma non è la sua.

(3 – Segue. La prima puntata è stata pubblicata il 27 luglio)

@federicamanzon

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