Uccise il padre in via Stuparich a Trieste. Parla il coinquilino: «L’avevo già denunciato»
L’inquilino di via Stuparich. «Mi aveva minacciato, era pericoloso. Da malato è diventato assassino»
TRIESTE «Era minaccioso, parlava di Allah, di attentanti... delirava. Quindi sono andato alla polizia e ho segnalato la sua pericolosità. Forse questo dramma si poteva evitare?».
È un interrogativo ancora sospeso quello di Elia Dal Maso, proprietario e pure inquilino, seppur saltuariamente, dell’appartamento di via Stuparich 14 in cui lo scorso 17 settembre si è consumato l’omicidio di Ashraf Wahdan, l’egiziano assassinato dal figlio Sherif, 25 anni, con trentatré coltellate.
Da allora l’alloggio è rimasto tale e quale. Sangue ovunque. Pavimento, muri, mobili. A Dal Maso, 45 anni, regista teatrale e insegnante di recitazione, tutto ciò non fa impressione. Tanto che in questi giorni, in quell’abitazione, lui ci dorme: «La morte, il sangue, non mi fanno paura. Trovo invece inquietante come la situazione di quel ragazzo, che ha evidenti problemi psichiatrici, sia rimasta priva di attenzione. Un malato diventato assassino».
Aveva avuto sentore della pericolosità di Sherif ?
«Sì. Premetto che io non abito a Trieste, vivo a Bologna. Vengo qui ogni tanto per vedere amici e sbrigare impegni. Nell’appartamento, di cui sono proprietario, ho una piccola camera per me. Il resto era affittato a un bravissimo ragazzo di origini africane e al titolare del locale in cui lavorava il padre di Sherif, Ashraf, il quale aveva preso una camera proprio per lui, suo dipendente. Da qualche anno viveva anche Sherif, il figlio. Lui l’ho incrociato poco. Parla male l’italiano, ci salutavamo soltanto. Con il passare del tempo avevo notato che si era chiuso radicalmente. Le poche volte che venivo lo trovavo in camera, isolato, con le cuffie. Una settimana prima dell’omicidio, il 10 settembre, si era verificato un episodio allarmante».
Cosa ricorda?
«È sera. Arrivo e trovo sul tavolo della cucina i resti di un fuoco. Sherif aveva bruciato qualcosa. Gli chiedo spiegazioni, lui mi insulta in arabo, inglese e italiano. Mi dice che è Dio e che aveva appiccato il fuoco per Dio. Sul muro vedo scritto “God of universe”. Diventa aggressivo, mi viene contro mettendomi le mani sul petto. L’altro inquilino, il ragazzo africano, si frappone per calmarlo. A quel punto chiamo il 118 per chiedere aiuto, facendo sentire dal cellulare gli insulti e le minacce di Sherif. Dopo un po’ mi telefona la polizia. Racconto che non c’era stata un’aggressione fisica, ma che temevo per la pericolosità di quel ragazzo. Inizialmente l’operatore mi dice che non mi avrebbe mandato nessuno, ma dopo un po’ arriva una pattuglia. Sherif accoglie gli agenti con tranquillità. I poliziotti si chiudono in stanza con lui. Sento che continua a dire che è Dio. Poi, ancora, due giorni prima dell’omicidio: lo sento insultarmi dalla camera. E sento parole come “Allah, terrorismo, Londra”. Il giorno dopo, quindi, vado in Questura per fare denuncia, perché avevo comunque subìto un’aggressione verbale, perché temo per la pericolosità sociale di quel ragazzo. Dico chiaramente che Sherif è pericoloso, sperando che qualcuno, che ne so i servizi, si attivi. Mi viene risposto che una denuncia o una querela non avrebbero portato a nulla. E che non esiste la “polizia preventiva”. Rimango allibito».
Che idea si è fatto di tutto l’accaduto?
«Ho saputo che c’erano state altre segnalazioni alle forze dell’ordine su Sherif. Mi chiedo perché nessuno sia mai intervenuto: un ragazzo con disagio mentale che andava curato, ma che si è trasformato in un assassino». —
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