Ubuntu: io sono perchè tu sei/ 6
Caro nipote, fratello, girovago esploratore del mondo nuovo dopo il virus, questo è il sesto concetto che io e Jaques vogliamo lasciarti.
Ci sono stati giorni in cui, quando camminavi per le città o i paesi, ti sentivi al centro di un’esperienza estraniante. La desolazione di intere piazze vuote e intere vie deserte difficilmente verrò cancellata dalla nostra memoria.
La domanda che, sottile, si infilava nella vita di tutti noi, spogliati degli orpelli e del superfluo della vita centrifuga dei mesi precedenti, era sostanzialmente una sola e chiamava in causa la nostra identità: chi sono io?
Ognuno a suo modo, ognuno con la propria declinazione, ognuno con la sua propria depressione, e il proprio senso di desolazione. Tutti ci siamo posti la stessa identica domanda. E ci è arrivata un’unica, chiara risposta.
Quello che piano piano appariva chiaro, come la mancanza dei contatti umani, degli abbracci, delle strette di mano che ci si dava senza pensarci troppo su, era che la nostra identità passava anche dalla vicinanza agli altri.
Ci fu un momento in cui tutti si impegnarono a distinguere la distanza fisica per la tutela della salute dall’isolamento sociale che genera solitudine.
La realtà è che noi abbiamo bisogno della presenza degli altri per riconoscere noi stessi. Gli altri ci fanno da specchio e da tramite affinché noi possiamo riconoscerci.
Io sono attraverso gli altri: io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti. In una sola parola di origine africana: Ubuntu. —
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