Tutto il mondo di Elisa dentro un libro

Da «Un senso di me», l’opera scritta dalla popstar monfalconese Elisa, pubblichiamo un brano tratto dall’autobiografia pubblicata dalla Rizzoli. È un album di famiglia, dice l’autrice, piuttosto che un volume nato a tavolino. Con tante foto e testi molto sinceri
Max ha iniziato prima di me. Quando facevo la parrucchiera, all’inizio nel negozio di mia madre e dopo nel negozio di mia sorella, il sabato pomeriggio venivano a farsi i capelli un sacco di ragazze, si preparavano per uscire la sera, e mentre facevo le pieghe si parlava e mi raccontavano che andavano a sentire un gruppo che si chiamava i «So Fucking What».


Dicevano vai a vederli, sono fantastici. Io suonavo e cantavo già. Per me che ero un po’ più piccola, loro erano degli dei, quelli strafighi con cui vorresti girare e quelli per cui non va bene niente e ti ricambi e ti ritrucchi quindici volte prima di mettere il piede fuori dalla porta. Tra l’altro non suonavano neanche a Monfalcone ma in un paese vicino, così c’è voluto un po’ perché mia madre si decidesse a lasciarmi andare. Ovviamente aveva ragione perché in seguito a una delle prime uscite mi son venuti a prendere Max e Nucci e mi hanno riportato a casa alle otto meno un quarto del mattino e mia madre quando ho infilato le chiavi nella serratura aveva la cornetta in mano per chiamare i carabinieri.


Alla fine ho fatto amicizia sia con Max («Gex», Gelsi) che con Christian Rigano (Nucci), che è stato il primo tastierista della nostra formazione originale. Ho conosciuto Max nel bar dove ogni giorno andavo a giocare a biliardo e a flipper. Lui era un tipo pazzesco, adesso ha i capelli lunghi ma allora era completamente rasato e mi faceva impressione perché sembrava cattivissimo. Aveva sempre la battuta pronta, le risposte sulla punta della lingua, e se non gli stavi simpatico non te lo mandava a dire. Con i «So Fucking What» aveva tanti progetti, suonava in situazioni diverse con gente diversa, per esempio a Monfalcone con Michele Poletto, che poi era il cantante del gruppo, che adesso fa il dj.


I «So Fucking What» erano Max Gelsi al basso, Andrea Fontana alla batteria e percussioni, Christian Rigano alle tastiere e Michele Poletto cantava. Nel frattempo mia madre ha capito che cantare era la mia passione vera. Ha creduto in me da subito, e questo mi ha dato conforto, una spinta in più. Quando ha deciso di aiutarmi, si è ricordata che l’unica persona legata alla musica che conoscesse era un suo amico d’infanzia, Vieri. Abitava a trecento metri da noi, e si era fatto uno studio di registrazione in casa. Un giorno siamo andate da lui e mi ha presa subito in simpatia, e anche io ho sentito che potevo fidarmi. Gli ho fatto sentire le cose che avevo e da allora mi ha seguita, e mi ha insegnato davvero un mare di cose non solo sulla musica. Lui e la sua compagna Giovanna mi hanno accolta nella loro casa, ogni giorno passavo ore e ore lì con loro, e lavoravo, lavoravo ed ero felice. Vieri mi dava da ascoltare cassette di cantanti jazz, arrangiamenti, pezzi che non conoscevo, mi ha fatto usare le macchine, lasciava che fossi io ad arrangiare le musiche, mi spronava a comporre. Mi faceva capire gli errori.


Devo a lui il mio «come si fanno le cose», il mio essere artigiana. Soprattutto, mi ha dato la possibilità di un confronto serio. Vieri era molto amico del padre di Christian Rigano, il tastierista dei «So Fucking What», avevano più o meno la stessa età e da giovani avevano suonato in band rivali. Venivano dallo stesso paese. Quando con Christian Rigano e Max Gelsi siamo diventati un po’ più amici, ho iniziato ad andare a sentirli spesso, e qualche volta a fare da corista. Anni dopo per un periodo ho sostituito il cantante quando non poteva, e loro tutti venivano a volte a sentire me e Silvia, una mia amica con cui cantavo in giro per i bar. Anche io come loro ero molto mobile, era normale fare cento cose, cento band, sfinirsi.


Tenevo in piedi tante situazioni e se non c’erano le andavo a cercare. Una volta a settimana provavo con un’orchestra swing composta da ventidue elementi. Giorgio Oleotto era il direttore, mi ha insegnato tantissimo anche lui, mi faceva cantare pezzi swing, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Frank Sinatra. E mi diceva che dovevo rallentare il ritmo, sentire lo swing. Non so se ho mai capito quello che voleva dire, ho provato tantissimo a imitare quello che mi dava da ascoltare. Anche quando sono andata via per fare musica mia, avevo dentro un pezzo della blu swing orchestra e del Maestro Oleotto, e ce l’ho ancora, in fondo. Forse un giorno mi dirà come sto andando con lo swing.


Avevo sedici anni e un’orchestra tutta per me. Non ci potevo credere. La prima volta che i fiati hanno soffiato tutti insieme sembrava si fosse alzato il vento dentro alla stanza. Nel frattempo studiavo pianoforte. Vieri mi ha prestato il suo Fender Rhodes perché io un pianoforte non ce l’avevo e ho cominciato le lezioni con Amelia Leban, la mia unica insegnante di pianoforte e disciplina direi. Una persona eccezionale, insieme a Maria Zanolla, la mia professoressa di italiano delle medie, costituisce la colonna portante del mio fragile metodo di studio. Senza di loro sarebbe stato ulteriormente grave.


Non mangiarti le unghie, diceva, dritta con la schiena, e mi puntava piano la punta della matita fra le scapole perché non stavo dritta. Ma non sono state queste cose a cambiarmi. È evidente. Al piano, sto sempre gobba e mi mangio ancora le unghie. È stato quello che sentivo nel tragitto in bici per andare da lei, tutte le pozzanghere che ho preso mentre ripetevo a mente gli esercizi perché avevo fatto prove con mille gruppi invece di studiare l’Hanon, quello è entrato dappertutto, in me. Mi ricordo il rumore della sua unghia che batteva il tempo sul tavolo, la sua inventiva per insegnarmi a essere puntuale – e io non sono mai stata puntuale –, le ciabatte per non rovinare il parquet, la sua resa davanti al mio essere testardamente e disperatamente deconcentrata quando mi chiedeva di suonare e cantare per lei una mia canzone. E ha fatto quel passo verso di me, ha capito che avevo bisogno di sapere dell’armonia perché volevo scrivere, ma il piano mi avrebbe accompagnato per sempre. Mi viene in mente nei momenti più lontani, mentre sto salendo sul palco del Forum, il suo viso dolce e severo, insieme agli occhi di mio nonno, e al suo pollice alzato in aria per dirmi che va sempre bene così, qualunque cosa «così» sia. Lei mi ha dato tanto.


Al mattino lavoravo come parrucchiera, andavo da Vieri quando potevo, non mi perdevo una lezione di piano, cantavo con l’orchestra, una sera facevo piano bar – Mariah Carey, Grease, Whitney Houston in repertorio – una sera in duo a fare country da un’altra parte. In più avevo due gruppi, nel primo suonavo la chitarra e cantavo, ci chiamavamo «The Soaps», facevamo brit pop. Nell’altro suonavo il basso e facevo qualche coro, ci chiamavamo «Room 360» e secondo Efrem, il chitarrista, e Piero, il cantante, il nostro era un genere che si chiamava noise punk core pop. Suonavamo nei centri sociali, nei pub, siamo stati anche in Slovenia.


Credo che tutto questo mix di esperienze diverse spieghi perché io non ho mai avuto uno stile preciso, una linea unica da seguire. A un certo punto ho lasciato il lavoro di parrucchiera e ho cominciato a fare solo musica, ma avevo lavorato abbastanza per potermi pagare le lezioni di piano, comprarmi un basso, una chitarra elettrica, un microfono, un mixer, due casse e un finale ed ero iper-stra-mega-felice. Un anno o due dopo, quando abbiamo cominciato a spedire i demo che facevamo con Vieri, è arrivata una risposta dalla Sugar, l’etichetta discografica di Caterina Caselli. Erano interessati e ci hanno fissato un’audizione a Milano. Ho chiesto a Christian di venire con me e suonare il piano. Ero supercontenta. A quindici anni non avevo mai visto il Duomo.


Siamo partiti in quattro di mattina presto, io, Vieri, Giovanna e Christian. In sala c’era Caterina ad ascoltarci. Caterina Caselli. Ero emozionata, avevamo veramente tanta paura, però è andata bene e dopo abbiamo continuato a mantenere un contatto, anche se mi hanno consigliato di scrivere in italiano. Ci ho provato, ma non mi veniva niente e così sono tornata all’inglese. Poi qualcosa è cambiato. Caterina non aveva mai smesso di credere in me e aveva fatto ascoltare il mio demo a Corrado Rustici, e lui aveva detto che voleva lavorare con me. Qualche tempo dopo è arrivato il contratto. Il mio primo contratto. Lo ha firmato mia madre per me: io avevo diciassette anni, ero ancora minorenne.
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