Turismo in crescita ma Trieste deve scegliere
TRIESTE I negozi di lusso o le bancarelle dilaganti per le strade? La città delle culture – letteraria, scientifica, del mare – o quella dei fori vuoti e tristi nelle vie del salotto buono? La Trieste del turismo allegro, familiare e inclusivo simboleggiato dalla Barcolana e dalle maratonine in cui tutti veleggiano o corrono con tutti; o quella che finisce sotto i riflettori perché getta nell’immondizia i vestiti dei clochard o abborraccia un putiferio disastroso sugli atleti africani? Se vuole diventare veramente una città turistica, Trieste deve scegliere. Le città, come le persone, non possono essere qualsiasi cosa: hanno un’anima e un’identità che devono saper trasmutare in immagine turistica, in identità comunicabile e coerente in tutte le sue parti. Perché i turisti possono anche piovere, come stanno piovendo, per la bellezza del luogo e per quel fenomenale strumento di promozione che è il passaparola. Ma le mode vanno e vengono. E se non vogliamo che siano un fatto passeggero, i turisti dobbiamo meritarceli.
Analizzare le ragioni dell’incessante crescita di presenze non è intuitivo. Chi scrive ritiene che la scintilla fu la scoperta di Trieste come “luogo” della storia del Novecento e simbolo tragico delle ideologie (la Risiera, le Foibe); e che poi la bellezza struggente e ombrosa della città, la scontrosa grazia scolpita dai versi di Saba, abbia fatto il resto, unita a una sorprendente reattività della proposta locale (nella ristorazione, negli alberghi e nella micro-imprenditoria sviluppatasi con i Bed&Breakfast).
Il punto è capire come trasformare l’occasione in un valore culturale ed economico della città: come afferrare la casualità dei fenomeni e convertirla in un’identità stabile. Ebbene, sotto questo profilo siamo un grande cantiere aperto, ma anche un grande pasticcio. Il porto vecchio finalmente avviato al recupero, ma ancora privo di un’identità riconoscibile. La pedonalizzazione intrapresa ma non conclusa, tra mille rispensamenti di più giunte in successione negli anni. Una proposta culturale troppo frastagliata, con troppi musei disseminati nei luoghi più improbabili. Un’offerta commerciale (che ovviamente non dipende dalle scelte amministrative, ma che queste possono influenzare) incompleta e contraddittoria: al boom della ristorazione “agile”, che ha reso il centro straordinariamente vivace e pieno di giovani, non ha ancora corrisposto una reale ripresa del commercio; le vetrine del “salotto”, a partire da Piazza della Borsa, sono meste e seriali al confronto di quelle di vent’anni fa; le periodiche baraccopoli ambulanti fanno certamente il pieno, ma diffondono con le salsicce grigliate un aroma che non è quello di un elegante, moderno capoluogo europeo.
Tutto ciò stride con il promettente investimento di fiducia che diverse catene alberghiere e commerciali stanno compiendo (come Coin, che sta riconvertendo i propri spazi al formato di punta Excelsior). Persino la segnaletica stradale è rimasta erratica e di scarso ausilio. Che fare, dunque? Insistere. Strutturare, accelerare, alzare l’asticella. Completare la pedonalizzazione, compiendo con coraggio le scelte ancora incompiute (Corso Italia, via Mazzini) e facendo del centro un modello di arredo e decoro urbano. Invogliare i grandi marchi, che invogliano i turisti facoltosi, a investire qui. Selezionare le manifestazioni da accogliere e le bancarelle da ospitare, se proprio dobbiamo. Fare del porto vecchio il centro di tutti gli sforzi nel ridare forma e volto alla città e nel comunicarla al mondo. Pesare le parole e le azioni. Nell’era dei social e della comunicazione istantanea e pervasiva, tra una story virale con la città in festa per la corsa, e quella sugli atleti africani da pagare o meno, corre un abisso. Nel quale, proprio oggi, Trieste non merita di precipitare. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo