Tullio Masè: «Mi è rimasta soltanto la casa di famiglia»
Aver dato il nome a un pezzo di storia (di economia e di tradizione enogastronomica) di Trieste e ritrovarsene di colpo lontano, come fosse un esilio. Aver covato, alimentato e curato per decenni un piccolo grande impero industriale, grazie al quale centinaia di triestini hanno trovato un lavoro e un reddito, potendo spesso progettare un futuro e una famiglia, e risvegliarsi, altrettanto di colpo, senza il becco d’un quattrino. È l’altra faccia del capitalismo, una delle sue favole al contrario. Per lui, pane al pane, è semplicemente «una bella storia finita male», questo almeno è il titolo che ha pensato di dare al pezzo più recente, e discendente, della sua lunga parabola di vita. Tullio Masè ha 84 anni. Non ne aveva neanche 20 quando, finita la seconda guerra mondiale, reagendo alla tragedia di un fratello finito dentro una foiba, fece ripartire l’omonima azienda di famiglia, da perno della terza generazione. L’avventura partì dal negozietto di via Crispi, due dipendenti in tutto. Ma - come noto - è finita, o meglio sarebbe dire s’è interrotta nei mesi scorsi, quando i dipendenti erano 75 e i punti vendita 11, interrotta nel pieno della crisi che ben poco risparmia, col crac aziendale e il subentro, per ora in affitto, della Bts, guidata da una cordata friulana.
Questa del cotto triestino finito in mano friulana però è un’altra storia. Quella che si racconta tra le righe, ora, si scosta volutamente dall’aspetto giuridico e finanziario, e non parla di economia. Ma solo di un uomo. Tullio Masè, appunto.
Col crac il vecchio Tullio ha perso tutto, perché tutto - raccontano gli ex dipendenti che gli sono rimasti affezionati, e che nei primi momenti del passaggio alla Bts gli sono stati vicini comprandogli la spesa, o prestandogli la macchina - aveva impegnato nell’azienda. Tutto tranne una cosa. Una casa. Quella della trentina Strembo, da dove partì per Trieste il nonno dello stesso Tullio. Non è intestata a lui, ma alla moglie. E infatti ora Masè è quasi sempre lì. «In esilio», sorride amaro. Gli abbiamo chiesto di raccontarsi e di cominciare da dove voleva lui. «Interrotto il percorso scolastico alla fine della guerra - attacca la storia - ho cercato di rimettere assieme quello che era rimasto dell’attività della famiglia. È stato molto bello. Tanta fatica, molti sacrifici ma anche grandi soddisfazioni quotidiane, date dal veder rinascere giorno per giorno una realtà che prima della guerra era importante. A distanza di tanti anni mi viene da pensare in certi momenti, di malinconia, se ne è valsa la pena. Se sul piatto della bilancia metto tutto quello cui sono stato costretto a rinunciare... affetti, condivisioni quotidiane delle gioie più semplici, i figli piccoli, le prime pagelle, vederli crescere stando loro vicino... Rimpiango di non essere mai riuscito ad accompagnare nessuno dei miei figli un giorno a scuola. Un’unica volta ricevetti l’invito ad un colloquio. La preside del liceo era interessata a conoscere le tendenze politiche del ragazzo. Conoscendo il pensiero della stessa, mi ricordo di essere stato molto rassicurante e convincente lasciando la prof tranquilla e contenta».
«Il lavoro - ci torna su Tullio Masè - mi ha sempre preso totalmente. La mia Masè, la Masè di terza generazione, l’ho concepita, l’ho vista nascere, crescere, diventare adulta ed importante sempre gradatamente, quasi segnando lo scorrere delle stagioni. Non abbiamo mai fatto miracoli ma chi entrava in Masè si sentiva gratificato e protetto. Questa era la mia Masè, per amore della quale ho sacrificato tutto il mio tempo, sottraendo alle persone della mia famiglia qualche cosa di cui avevano diritto. E di questo mi scuso». «Con il tempo - conclude - è arrivato il tempo del ricambio generazionale (da diversi anni il figlio Andrea era amministratore delegato, ndr), sono stato convintamente felice, le premesse c’erano tutte, il solco era dritto e profondo. Poi, come sono andate le cose, è storia di oggi. Con commozione saluto tutti coloro che mi ricordano e mi fanno sentire la loro vicinanza con tante attestazioni di amicizia, stima, affetto, amore». Un addio a Trieste? Può darsi. Non alla vita. L’84enne Tullio, ne sono convinti alcuni suoi ex dipendenti rimasti in contatto con lui, non ha mollato nei mesi scorsi e non lo farà neppure adesso. Adesso che, gira questa voce, un’azienda del settore - non triestina - gli ha chiesto di diventare consulente. La medaglia del capitalismo potrebbe voltarsi di nuovo. La «bella storia finita male», forse, non è ancora finita.
@PierRaub
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