Trieste vista dal mare svela le sue realtà sospese
Certe cose si capiscono solo facendo qualche passo indietro, guardando un fenomeno dalla giusta distanza. Vale per un esperimento scientifico, per un’opera d’arte, forse anche per una persona o una relazione. Sicuramente vale per una città. Se poi quel fecondo allontanamento viene compiuto via mare, ammirando il profilo dalla prospettiva di un golfo, il tutto assume un significato impenetrabile, quasi sacro nella sua semplicità.
Così anche una breve gita in barca è in grado di svelare tratti inediti di Trieste: man mano che ci si allontana dalla costa, tante convinzioni e idee che sulla terra ferma apparivano granitiche vengono proiettate in una dimensione nuova. Cullati dalle onde, i nervi si rilassano e la contemplazione della città induce al silenzio, al raccoglimento. E le immagini viste mille volte, il panorama che si credeva di conoscere a menadito, si scoprono diversi, ma più che mai veritieri.
Al mare, infatti, non si può mentire. Chi ha la fortuna di poter navigare spesso lo sa bene. Di solito, l’operazione che si compie è inversa: è il golfo a essere oggetto di fotografie e di sguardi incantati, dalle Rive o dal molo Audace. Ribaltando la prospettiva – osservare non più il Golfo dalla città, ma la città dal Golfo – il risultato che si ottiene è spiazzante. Seguendo la linea di costa, ci si accorge lentamente di una infinità di dettagli che soltanto in questo modo possono essere notati. Trieste si offre tutta intera, così com’è, nel suo fermento quotidiano al contempo familiare e sconosciuto.
Partiamo. Inutile dire che, durante l’estate, a catturare immediatamente l’attenzione sono le folle degli stabilimenti balneari. Subito accorrono al pensiero i lunghi dibattiti delle scorse settimane sulla capienza del “Pedocin”, le geremiadi intentate da migliaia di bagnanti per riottenere la capienza ordinaria di 700 ingressi. Ora, a guardare la folla della “Lanterna”, tutto appare logico, quasi inevitabile: la distesa di sassolini bianchi nella parte femminile è cosparsa da un numero indefinibile di asciugamani e, da lontano, la concentrazione di persone appare ancora maggiore, quasi occupasse interamente gli spazi. L’osservazione dal mare, come scopriremo, è tutta una questione di proporzioni (o di sproporzioni): la distanza consente di riconoscere i rapporti concreti, la portata reale di un elemento preso in esame.
Lo stabilimento limitrofo dell’Ausonia porta con sé una dose di mistero. Passandogli accanto, si resta affascinanti dalla sua singolare architettura, ma pure colpiti dalla vasta zona non più accessibile e deteriorata. Anche stavolta i dibattiti riemergono dalla memoria recente (il progetto di riqualificazione dell’area dovrebbe essere presentato a breve) ma l’impatto dello sguardo dice più di mille parole. Eppure, lo scheletro abbandonato dell’Ausonia conserva una sua bellezza spettrale, decadente.
Percorriamo qualche miglia e arriviamo nel cuore della città. Questo è forse il momento in cui Trieste prende il sopravvento, rapisce senza ammaliare, solo con la forza della sua imponenza. Non stiamo parlando di piazza Unità e nemmeno delle Rive o del Castello di Miramare. Ma delle file di container appoggiati l’uno sull’altro, delle gru e dei macchinari, delle navi da carico e dei camion. Nella cornice di tutta la città, il porto occupa una porzione enorme, che si estende alla zona industriale e copre decine di chilometri. Si vedono gli operatori muoversi affaccendati, si sente l’eco distante del trambusto su cui si regge una parte rilevante dell’economia locale.
In quante occasioni si è parlato della crescita dello scalo giuliano? Talvolta è difficile tradurre un argomento in un’immagine nitida. Il porto, poi, è nascosto e defilato dalla vita cittadina, la accompagna come una presenza costante ma perlopiù ignota. Visto dal mare, il suo mistero non viene scalfito, ma in compenso se ne coglie la grandezza. E la sua influenza si estende a tutte le navi porta-container attraccate o in movimento, spingendo l’orizzonte verso la Turchia o le altre destinazioni internazionali.
Altrettanto curiosa è la vista su Servola, per le note implicazioni storiche che si porta dietro. Il verde che circonda l’area dove un tempo sorgeva la Ferriera potrebbe facilmente diventare la fotografia simbolo del rilancio rionale ma, in questo caso, la riflessione suscitata dal mare è sibillina: Servola appare come sospesa, privata di ciò che fino a poco tempo fa costituiva il suo fardello e ancora incapace di darsi una nuova e riconoscibile identità.
Torniamo indietro, verso il centro città. L’occhio è meno reattivo, convinto di sapere già tutto ciò che serve. Di nuovo, però, viene sorpreso dalle proporzioni. Perché dal Golfo le navi da crociera sembrano davvero in procinto di mangiarsi piazza Unità, incombono con maggiore gravità su Trieste rispetto a quanto è possibile notare passeggiando sulle Rive. Soprattutto, gli scafi bianchi coprono la vista sulla maestosità di alcuni edifici, dando un’impressione di invadenza e favorendo il contrasto con la sagoma del Municipio o del sopraelevato Castello di San Giusto.
Il contrasto invita a una domanda: dove si trova l’anima della odierna Trieste? Nelle navi da crociera o nelle tracce della sua storia che le attorniano? O ancora nei chilometri e chilometri del porto? Tornando con i piedi sulla terra ferma, la domanda tende a scomparire, si perde nella confortante e pervasiva quotidianità. Ma il ricordo del mare è indelebile e talvolta il dubbio riaffiora alla coscienza, come se, in fondo, non si conoscesse la propria stessa città. E la domanda continua a rimanere senza risposta.
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