Trieste, una maxidiscarica nelle viscere del Burlo

TRIESTE La torcia illumina la parete in alto e la scritta diventa leggibile. “Tosse pagana”. Chiamavano così la pertosse dei bambini quella volta. Quando suonava la sirena dei bombardamenti portavano giù anche loro, dal Burlo. Stretti nelle viscere del rione assieme agli abitanti di Ponziana. Sembra quasi di sentirli, i bimbi. La corsa, le grida, la paura. Il buio. Il viaggio nell’impenetrabile galleria che ancora oggi conduce all’ospedale, che pochi hanno visto e di cui pochi a Trieste conoscono l’esistenza, comincia dal giardino di via Orlandini. È stata costruita nei primi anni Quaranta dal Comune, che ancora oggi ha le chiavi, come rifugio antiaereo. Sotto le scalette l’ingresso, sigillato con della lamiera che il gruppo di speleologi del Club Alpinistico triestino apre senza problemi.
È la “Galleria Littorio”, dal vecchio nome del quartiere. Qualcuno teme possa nascondere materiali pericolosi che risalgono a quel periodo o al dopoguerra. Voci che si rincorrono tra i dipendenti del Burlo, come una leggenda, da quando i casi di tumore tra medici e infermieri, a partire dagli anni Ottanta, hanno iniziato a farsi sempre più numerosi soprattutto tra chi lavora al Pronto soccorso. Saranno le indagini epidemiologiche degli esperti interpellati dall’Irccs e dalla Regione a dirci una volta per tutte se quelle malattie sono “normali”, cioè che non hanno un’incidenza diversa che altrove, o se davvero si può sospettare qualcosa di strano.
Ma cosa si cela nei sotterranei? Una discarica impressionante e uno strato di melma maleodorante che coincide con l’ultimo corridoio, proprio quello che sbuca nell’astanteria del Burlo o poco vicino. Trieste ha una montagna di spazzatura sotto i piedi e non lo sa. A partire dal dopoguerra quei meandri venivano usati come deposito, presumibilmente pure dal Comune: resti di case bombardate o da ricostruire. Tegole, mattoni, pietre, tubi e amianto. È rimasto tutto là, dimenticato, in mezzo ai rifiuti che si sono accumulati nel tempo.
Via Orlandini, dunque. Ci infiliamo dal giardino, con tre speleologi e il fotografo. All’entrata una crosta sudicia fa ormai da secondo pavimento, un tutt’uno con vestiti stracciati, plastica, vetro e fango. Poco oltre, attraversando un buco del muro, si imbocca il tunnel vero e proprio. Quattrocento metri di caverna artificiale con le stalattiti di calcare e le radici degli alberi che pendono dal soffitto. Silenzio. Qualche goccia d’acqua. Ai lati pezzi di legno marcio, antichi attrezzi per preparare il catrame, barili sventrati con il fondo colmo di catrame riverso. Qua e là piccoli vani, utilizzati come servizi igienici. Un’altra scritta, “Zona orfanotrofio”. La scarpetta di un bambino. Proseguiamo nell'oscurità, nel tratto che in superficie corrisponde alle case di via S.Giovanni Bosco. Ancora roba edile. La luce delinea i contorni di una grossa catasta grigia, è un’enorme quantità di eternit. Circa 3 metri cubi che dovevano servire da rivestimento per i tetti delle case negli anni Cinquanta e Sessanta. Vari pezzi sono scheggiati e sbriciolati a terra. Ormai siamo in prossimità del giardino dell’ospedale, da dove si schiude l’altro ingresso che dà su via Battera.
Ma il passaggio è murato e, come si può scorgere oltre, i rifiuti raggiungono il soffitto. Da qui si dirama un cunicolo buio: va diritto al Burlo. La sporcizia, su quest’ultimo tratto prima dell’imbocco sotto il giardino dell'Irccs, è un cumulo di detriti alto mezzo metro. Sul lato una decina di barili arrugginiti e pieni. Di cosa? A sinistra si prende il corridoio che collega la galleria all'istituto infantile, sarà una cinquantina di metri. Ma inaccessibili perché le perdite d’acqua hanno formato una melma maleodorante in cui si sprofonda fino al ginocchio. In fondo una scalinata. Dalle cartine è piuttosto chiaro: porta vicino al Pronto soccorso, o dentro, nei suoi sotterranei. Un quartiere e un ospedale di fama internazionale con una discarica sotto i piedi da decenni.
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