Trieste: un fiore sulla tomba di Alina, un anno dopo
Un anno fa in una camera di sicurezza del commissariato di polizia di Villa Opicina moriva Alina Bonar Diachuk. La trentaduenne ucraina si era tolta la vita con un cappio al collo legato a un termosifone in una camera di sicurezza del commissariato di Opicina. Una brutta storia che ha spinto la Procura ad aprire un’indagine che è tuttora aperta. I primi accertamenti dicono che Alina non doveva essere trattenuta in custodia dalla polizia. Era tornata in libertà il 14 aprile del 2012 dopo aver patteggiato per un’accusa di favoreggiamento all’immigrazione. Avrebbe dovuto essere trasferita subito nel Centro di identificazione ed espulsione di Bologna. E invece, dopo la scarcerazione, era stata prelevata da una pattuglia della polizia e portata nel commissariato di Opicina. Due giorni dopo è stata trovata morta. Sulla cella vigilava una telecamera di sicurezza ma per nei 40 minuti di agonia della donna nessuno si è accorto di nulla.
Per questa assurda morte restano indagati l’allora responsabile dell’ufficio Immigrazione della Questura, Carlo Baffi e il suo vice Vincenzo Panasiti. Nel mirino della Procura sono finiti anche quattro poliziotti addetti alle pattuglie dello stesso ufficio immigrazione. Secondo il pubblico ministero titolare dell’inchiesta, Massimo De Bortoli, era ormai diventata una prassi trattenere gli stranieri scarcerati o clandestini in un commissariato fino al momento dell’espulsione. Finchè ci è scappato il morto.
Ieri, ad un anno dalla sua scomparsa, a portare un fiore sulla tomba di Alina nel cimitero di San’Anna, sono arrivate a Trieste la madre e la sorella. Degli amici e delle persone che avevano preso le sue difese accusando le forze dell’ordine invece non c’era traccia. Alina è stata ricordata solo dalla sua famiglia. «Voglio giustizia, voglio sapere il perché di questa morte»,, ha gridato la madre in lacrime. «Nessuno è venuto a salutarla, a ricordarla, – ha aggiunto – nemmeno quel suo fidanzato che l’ha trascinata in questo disastro e una volta uscito dal carcere, senza nemmeno telefonarmi, è sparito». In ginocchio accanto alla tomba della figlia, la madre ieri all’ora di pranzo con le mani ha scavato, piangendo, delle buche per piantare tre camelie. Terra e lacrime, lacrime e terra. «Il giorno in cui mia figlia è uscita dal carcere – ricorda la donna disperata – per lo stesso processo sono stati liberati due stranieri. Loro hanno rivisto subito la libertà mentre Alina è stata trasportata in quella cella ad Opicina. Perché?». Appena arrivata nel commissariato di Opicina, Alina aveva chiamato sua madre. «Era in lacrime, - ricorda la donna - non comprendeva il perché di quell’ulteriore reclusione».
«Anch’io sono stata in carcere a Trieste e rilasciata di sabato, quando gli uffici per ottenere timbri e permessi sono chiusi – aggiunge la sorella di Alina – eppure ho immediatamente riconquistato la libertà». Madre e sorella ieri nel pomeriggio hanno incontrato l’avvocato Sergio Mameli, difensore prima della ragazza e ora della sua famiglia. Prima di lasciare il camposanto hanno posto sulla tomba di Alina anche dolci, ovetti di cioccolata e un bicchiere di vino. «E’ nostra usanza – spiegano – beviamo e mangiamo con lei. Le abbiamo acceso anche delle sigarette». Un modo per farle sentire la loro vicinanza, un segnale d’affetto. «Andremo fino in fondo – annuncia la madre – vogliamo sapere cosa è successo in quella cella, vogliamo verità e giustizia per Alina”.
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