Trieste, segregata in casa e picchiata dai genitori
I genitori l’hanno reclusa in casa a diciassette anni. L’hanno tenuta lontana dagli amici. L’hanno scortata per strada. Non l’hanno mandata a scuola per un lungo periodo. E, quando non ha obbedito, l’hanno picchiata. Non una ma più volte.
Le hanno addirittura prospettato, minacciandola, un matrimonio combinato. Sì, un matrimonio con uno sposo che avrebbero scelto loro nel loro paese d’origine, il Kurdistan turco, al confine tra la Siria e l’Iraq, un paese teatro di guerre e massacri.
Sembra una vicenda medioevale. O, quantomeno, abissalmente lontana dalla Trieste di oggi. E invece la ragazzina e i genitori protagonisti sono residenti in città da tempo. Costituiscono, anzi costituivano, una famiglia “regolare”, apparentemente integrata nella società, perché adesso i fili si sono spezzati: la figlia si è ribellata e, attualmente, è ospitata in una comunità protetta.
La vicenda è emersa ieri mattina quando i genitori, entrambi incensurati, sono stati interrogati dagli investigatori della squadra di polizia giudiziaria della polizia locale, su incarico del pm Giorgio Milillo, il magistrato titolare del fascicolo. Sono accusati a vario titolo di abuso di mezzi di correzione, maltrattamenti, percosse e minacce anche di morte nei confronti della figlia. I genitori, accompagnati dall’avvocato difensore Andrea Cavazzini e da un interprete, hanno rivendicato la loro innocenza sostenendo che la figlia si è inventata tutto. Ma l’hanno fatto al di fuori dell’interrogatorio perché, davanti agli investigatori, non hanno detto nulla, avvalendosi tecnicamente della facoltà di non rispondere, prevista dal Codice.
Forse il madre e il padre della ragazzina, che hanno la licenza elementare, hanno scelto il silenzio perché non sono perfettamente consapevoli della gravità delle accuse mosse a loro carico. O perché, nonostante l’aiuto dell’interprete, devono fare i conti con una barriera linguistica oltre che culturale molto difficile da superare.
A mettere in moto la macchina giudiziaria sono state una segnalazione legata a una confidenza che la ragazzina ha fatto un anno fa, pochi mesi prima di essere tolta dalla scuola, per essere spedita contro la sua volontà in una città della Turchia dell’est, ma soprattutto la successiva segnalazione partita dall’ospedale Burlo Garofalo, alla quale la diciassettenne si era rivolta dopo le percosse.
Le accuse a carico dei genitori sono precise e determinate. Anche perché, da quanto appreso, i riscontri delle indagini basate dalle dichiarazioni della ragazza, vista la delicatezza della vicenda, sono state particolarmente meticolose e approfondite. Dagli accertamenti è emerso che la diciassettenne poteva uscire di casa solo se accompagnata dalla madre o dal padre. E, quando succedeva, doveva tenere lo sguardo basso per strada e camminare velocemente. Per mesi è rimasta chiusa, imprigionata, nel piccolo appartamento in cui vive con i genitori. Quei genitori che le hanno tolto la possibilità di frequentare tutti i coetanei. Femmine e maschi. Compagni di scuola o amici. Che le hanno detto «Sei una puttana». E che l’hanno picchiata, sempre secondo l’accusa, in diverse circostanze: è stato il padre a prenderla a calci e pugni sulla schiena perché non si era comportata come i genitori reputavano opportuno. Nella lunga lista delle accuse ipotizzate dal pm a carico dei genitori, alla voce “aggressione”, compare un episodio ben preciso: la ragazza ferita, in quel caso, era stata accompagnata al Burlo dagli stessi genitori i quali l’avevano costretta a dichiarare che le lesioni riportate erano state causate da una caduta accidentale.
Madre e padre si sono spinti oltre minacciandola addirittura di morte. Tra le “colpe” più gravi quella di non voler andare in Turchia, dove avrebbe dovuto sposarsi contro la sua volontà. Ora le indagini vanno avanti mentre la ragazzina vive in un luogo protetto.
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