Trieste nell’abisso della grande guerra ALLE 10.45 DIRETTA STREAMING
Dieci milioni di morti e sei di mutilati in un genocidio europeo che ha avuto tra Monfalcone, Gorizia e il Carso, uno dei suoi principali carnai. Gli altri portano il nome di Verdun, dei laghi Masuri, di Tennenberg. La guerra di trincea, i gas asfissianti, le mitragliatrici, i reticolari di filo spinato, le esecuzioni sommarie e le condanne a morte pronunciate dai Tribunali militari, hanno rappresentato il perimetro di una “non vita” in cui un secolo fa sono stati proiettati in varie ondate centinaia e centinaia di migliaia di giovani soldati - contadini e soldati-operai. Di chi ha preparato l’innesco di questo incendio e del ruolo che ha avuto l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intersa, lo storico . Mario Isnenghi parlerà domani al Teatro Verdi, alle 11, nell’ambito della rassegna organizzata dal Piccolo in collaborazione con l’editore Laterza. “La città in guerra, Trieste deve ritornare all’Italia” è il titolo della conferenza. Un titolo provocatorio, destinato a far discutere e a suscitare antiche polemiche.
«Trieste non era mai stata parte integrante dell’Italia», dice Mario Isnenghi. «Perché allora, prima e dopo la Grande Guerra, per almeno un paio di generazioni, si è sempre parlato del ritorno della città all’Italia? La buona fede dei più non rappresenta una garanzia di veridicità. Da centinaia di anni Trieste e il suo territorio facevano parte dell’Impero asburgico e in Italia in pochi, pochissimi, sapevano quanti sloveni, croati, tedeschi, ebrei, ungheresi, greci e serbi vi abitavano. Si voleva far credere che tutti fossero stati sempre degli irredentisti, animati dall’unico desiderio di far diventare la città il simbolo di una guerra benedetta e voluta».
La parte più attiva politicamente, che ha agito per far uscire l’Italia dall’iniziale neutralità, proiettandola nel conflitto già in atto da dieci mesi, ha assunto il nome di «fronte interventista». Letterati, poeti, giornalisti, sindacalisti rivoluzionari, hanno alimentato il mito del «ritorno di Trieste all’Italia» anche se la città in precedenza mai era stata italiana. I poeti e i giornalisti hanno gridato nei comizi e nelle manifestazioni, dopo averne scritto nelle loro riviste, nei fogli, nei manifesti e sulle pagine dei quotidiani. La guerra di volta in volta veniva rappresentata come occasione rigeneratrice per l’individuo e la società, come strumento di protesta contro l’assetto dello Stato o, al contrario, come antidoto alla lotta di classe. Ma anche come conclusione ineludibile dell’epopea risorgimentale in cui prima il Piemonte, poi l’Italia unita si erano confrontate con l’Austra sui campi di battaglia.
Mario Isnenghi ha esplorato le pagine di Marinetti, Soffici, D’Annunzio, Lussu, mettendo a fuoco il terreno di coltura di quel fenomeno politico: un misto di insoddisfazione e orgoglio, di accettazione e ribellione verso la società borghese che il conflitto aveva portato in superficie con tanta evidenza. Nei primi Anni del Novecento lo scollamento fra le istituzioni liberali e l’energia intellettuale del Paese era massimo, il discredito per le elites al potere nel Regno d’Italia era più che diffuso, la disistima per la democrazia parlamentare era molto forte, tanto a destra come a sinistra. E tutti coloro che la pensavano a questo modo videro nella guerra agli Imperi centrali l’occasione che non poteva essere perduta. Il passo fu breve da questa suggestione collettiva e in alcuni mesi si giunse alle “Radiose giornate di maggio”, alla rottura dei rapporti di collaborazione con l’Impero di Francesco Giuseppe, alla mobilitazione e alla dichiarazione di guerra. Da citare dopo il suo rientro dalla Francia gli infuocati discorsi di Gabriele d’Annunzio in cui il “poeta” inneggiò ripetutamente al mito di Roma, al Risorgimento, a Giuseppe Garibaldi. Dal 1910 aveva aderito all’Associazione nazionalista italiana il cui fine ultimo era quello di realizzare uno Stato contrassegnato dalla volontà di potenza, esattamente all’opposto dell’ “Italietta meschina e pacifista” di quegli anni.
Questo accadeva in Italia e in parte anche tra i triestini. Vanno però citate alcune cifre. Gli irredentisti che indossarono la divisa dell’esercito di Vittorio Emanuele terzo, rischiando il capestro se catturati, furono 600. Mille i concittadini riparati in Italia; molti quelli rinchiusi nei campi di internamento austriaci. Oberhollabrunn, e Bruck and der Mur per citarne solo due. Al contrario circa quarantamila triestini risposero alla chiamata alle armi dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Era il 28 luglio 1914 e sui muri della città comparve il proclama redatto in nove lingue: “Ai miei popoli”. Un secondo proclama fu affisso il 23 maggio 1915, quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. “Il re d’Italia mi ha dichiarato guerra. Un tradimento di cui la Storia non conosce uguale è stato commesso dal regno d’Italia contro i suoi due alleati. Dopo un’alleanza durata oltre trent’anni l’Italia ci ha abbandonati nell’ora del pericolo per passare, a bandiera spiegata, nel campo nemico. Noi non abbiamo minacciato l’Italia, non ne abbiamo sminuito la considerazione, né tantomeno l’onore e gli interessi…” Anche questo proclama portava la firma dell’anziano e stanco imperatore la cui figura simboleggiava tristemente il signorile declino dell’Impero, le cui glorie riposavano ormai su antichi ricordi e negli ordinati scaffali di una mastodontica burocrazia. A Trieste in anni anche recenti ha imperversato non solo sulla copertina di un libro ma anche sul palcoscenico dei teatri e sulle pagine dei giornali la frase “l’Austria era un Paese ordinato”. Uno dei miti, uno degli slogan con cui siamo costretti a fare i conti anche se l’Austria descritta in quei libri e in quei copioni teatrali oggi non esiste più. Esiste solo nella memoria e alimenta attese deluse ma per questo inossidabili. Per smentire quell’ordine divenuto mito basta citare quando accade in città nei giorni radiosi del maggio 1915. Furono assaltate e bruciate la redazione e la tipografia del Piccolo. Stessa sorte per la palestra e la sede della Ginnastica triestina. Fu devastato il caffe San Marco e altri locali frequentati da irredentisti. Fatta a pezzi anche la statua di Giuseppe Verdi. La forza pubblica stette a guardare. Una cronaca precisa di quanto avvenne ci è stata regalata una dozzina di anni fa da una ricerca dello storico Lucio Fabi pubblicata nel libro “Trieste 1914-1918, una città in guerra” edito da Mgs. Testimone diretto degli incendi, delle devastazioni e dei furti compiuti dalla folla, fu un gruppo di scolare della Quinta A femminile della scuola di via dell’Istria. Mario Isnenghi nella prefazione di quel libro loda l’autore e la maestra che quasi un secolo fa fece scrivere di quei tumulti alle sue alunne “in presa diretta”. In lingua italiana e senza alcun distinguo o critica per quanto era appena accaduto nelle strade di Trieste.
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