Trieste, maxicondanna all’ex gestore della Diga
TRIESTE La maledizione dell’Antica Diga colpisce ancora. In realtà, storia giudiziaria alla mano, la striscia in mezzo al mare più chic della città, più che portare sfiga, nel recente passato si è scoperta evidentemente meta, per così dire, di avventurieri.
Franco Brumat - l’imprenditore monfalconese oggi 62enne che nel 2011, alla testa di una nuova cordata, subentrò alla disgraziata gestione di Federico Stopani, rilanciandone pure il nome in “L’Isola di Trieste” - ha preso una condanna che nei corridoi di Foro Ulpiano viene vissuta come esemplare: cinque anni e tre mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta aggravata in relazione al crac della D’Arcano Sviluppo Europa Srl.
È la società che nel biennio 2011-2012 aveva gestito la concessione dell’Antica Diga e di cui lo stesso Brumat è stato dapprima amministratore di fatto, dietro le quinte, e poi amministratore di diritto, alla luce del sole, benché non potesse neanche esercitare questo secondo ruolo per precedenti condanne, sempre per bancarotta fraudolenta, passate in giudicato.
Ed è stato proprio su un giro di soldi tecnicamente “distratti” dalle casse della Srl e sottratti così alla loro destinazione - cioè il pagamento del servizio di trasporto via mare dei clienti dal Molo Audace alla Diga (per il quale era stata scomodata anche Tripnavi per l’Araxi, una motonave da 150 posti) nonché di una serie di stipendi di chi lavorava nello stabilimento - che si sono fondati prima il fascicolo d’indagine e in seguito il processo per Brumat.
Il quale, per la cronaca, a inizio 2014 per questo era pure finito per un periodo ai domiciliari nella sua casa di Gorizia ritrovandosi infine come unico imputato a processo dopo l’uscita di scena di Sergio D’Arcano, che aveva patteggiato a suo tempo una pena minore anche perché la sua figura era stata ritenuta marginale.
I soldi di cui si contestava appunto la “distrazione” tra il 2011 e il 2012 valgono 134mila euro: una cifra se vogliamo modesta, in confronto ad altri casi giudiziari della medesima pasta. Nella decisione assunta dal collegio dei giudici di primo grado presieduto dal responsabile del Tribunale penale di Trieste Filippo Gulotta, e composto da Francesco Antoni e Marco Casavecchia, ha pesato di certo la raffica di aggravanti: a Brumat, in effetti, sono state riconosciute la cosiddetta recidiva specifica e reiterata (l’imprenditore monfalconese ha nel curriculum altre due condanne per bancarotta fraudolenta del ’97 e del 2006), l’aggravante dei “più fatti commessi per distrazione” e pure la mancata osservanza della legge che gli proibiva di avere o amministrare una qualsiasi impresa commerciale fino al 2017 proprio per i suoi pregressi penali.
Cosa che invece Brumat ha fatto diventando ad agosto 2012 amministratore di diritto della D’Arcano Sviluppo Europa, al crepuscolo della vita di questa Srl che di lì a poco, sotto Natale 2012, sarebbe stata dichiarata fallita con un rosso di bilancio di 479mila euro e un carico debitorio di almeno 653mila euro.
I cinque anni e tre mesi di condanna si avvicinano - di molto - alle richieste per complessivi sei anni e mezzo avanzate nella sua requisitoria dal pm Matteo Tripani, che aveva prima coordinato le indagini del Nucleo di Polizia tributaria delle Fiamme gialle e quindi sostenuto l’accusa a processo dopo aver ottenuto il rinvio a giudizio dal gip Guido Patriarchi.
Indagini e accuse che, per i 134mila euro “distratti”, parlavano di 45mila euro travasati dalle casse della D’Arcano Sviluppo Europa Srl in quelle della croata Vino Mare Doo, con sede a Umago e legalmente rappresentata dallo stesso Brumat, di altri 67mila contabilizzati come “prelievo soci” e ulteriori 22mila prelevati a ridosso del fallimento come sedicenti “restituzioni” di finanziamenti resi sempre da Brumat.
In mezzo, anche la contestazione di aver falsificato otto operazioni contabili per complessivi 164mila euro, riferite anche al nolo dell’Araxi. L’avvocato Andrej Venuti, difensore d’ufficio di un imputato che mai si è presentato a questo processo ed è stato dunque condannato in sua assenza, si era battuto per una consistente riduzione delle richieste del pm, sostenendo in particolare l’insussistenza delle prove sul ruolo di amministratore di fatto del suo assistito.
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