Trieste, l'ira dei ragazzi per lo Ius soli negato: "Siamo già italiani"

TRIESTE. Se la tredicenne Ting Ting non avesse gli occhi leggermente a mandorla, i suoi compagni di classe nemmeno si accorgerebbero che lei è cinese.
TRIESTE. Se la tredicenne Ting Ting non avesse gli occhi leggermente a mandorla, i suoi compagni di classe nemmeno si accorgerebbero che lei è cinese. Per loro il dibattito romano sullo Ius soli ha poco senso. Mentre in Parlamento si scannano, tra un tira e molla che ormai le mura di palazzo Madama conoscono a memoria, i bambini - inconsciamente - hanno già scelto. Tra i banchi di scuola, de facto, il decreto legge sulla cittadinanza italiana è già stato approvato. Per Mattia, il compagno Andrea - con il quale condivide l’età, 8 anni, e la grande passione per la pizza -, è uguale identico a lui. «L’unica differenza è che io ho la pelle rosa e lui scura».


I diritti e i doveri che quel pezzo di carta sancirebbe, non si mettono nemmeno in discussione: ce li hanno dalla nascita e li conserveranno per sempre. Non occorre quindi aspettare la fine di questa legislatura, perché noi «siamo tutti cittadini del mondo». Lo riconoscono anche i ragazzi del liceo Galilei, i primi a raccontare al Piccolo, durante il viaggio tra le scuole triestine per capire come recepiscono questo disegno di legge i giovani. Non importa che tu provenga dal Libano, dalla Cina, dall’Ucraina o dalla Turchia. «Tutti noi abbiamo un’identità multipla - ricorda Francesco Gregori, italiano ma nato in Inghilterra da padre australiano -, prima siamo europei e poi italiani». Lo specificano durante il loro laboratorio interclasse che coinvolge in modo facoltativo gli studenti del triennio. È una fucina portata avanti dal professor Philip Tarsia, un esperimento di didattica attiva, cosiddetta “hands-on”, dove ognuno partecipa al dibattito che segue tematiche date dall’agenda Onu 2030.


A chi entra in classe, mostrano il cartellone che stanno completando: “Ius soli mito o fatto?”. Su questo cartoncino, entro la fine dell’ora, appiccicheranno dei post-it con i loro pensieri. «Se diciamo sì allo Ius soli, non perderemo le nostre tradizioni», sottolinea Anna Trost, triestina. Madalina Suman, invece, è moldava. È arrivata qui nel 2009, con la mamma che si è laureata una seconda volta, in cerca di un futuro migliore. Ricorda benissimo quando a scuola correggeva delle sue compagne e per risposta le hanno detto: «Come ti permetti di correggere?». Questi giovani stranieri non perdono comunque le loro tradizioni e l’amore per la loro patria d’origine. «Mi sento per il 49% italiano», ammette Dusan Komarica, 17 anni, serbo. «Sogno nella mia lingua, il dialetto wolof - aggiunge Omar Ba, dal Senegal, senza cittadinanza perché in Italia da soli sette anni -. Amo la lingua italiana e il modo di fare degli italiani».


Si sente per metà italiano anche in Fernando Arrieta Rivera, colombiano, da 8 anni a Trieste. E poi ci sono Yasna Montazer, iraniana, Protiti Suratun Fatiha, del Banghladesh. E tanti altri ragazzi di tutto il mondo al Galilei. Come alla media Fonda Savio Manzoni, dove in una classe, su 22 alunni, solo sette sono italiani. In tutto l’edificio sono rappresentate ben 36 nazionalità. «Noi ci definiamo non italofoni», afferma Virna Claut, la docente che conduce per tutto l’anno il progetto intercultura, che prevede tante azioni, tra cui l'educazione interculturale rivolta a tutti. «Ospitiamo conferenze e mediatori linguistici, trattiamo vari temi sulla globalizzazione e la religione. Un’esperienza che viene fatta più o meno in tutte le classi».


La consapevolezza della necessità di una cittadinanza può non essere forte. Ma perché, non percependo alcuna differenza verso gli altri compagni, non se ne sente il bisogno e non si ha ancora l’età per comprendere quanto possa essere utile per avere gli stessi diritti. Ma qualcosa s’intravede. Rares, 13 anni, di famiglia rumena, capisce che da quando sua mamma l’ha ottenuta, «ha potuto comprare una tv e un cellulare a rate, ha un contratto lavorativo migliore e guadagna di più», dice. Ama trascorrere l’estate nel suo Paese, come altri suoi compagni che invece vanno in Serbia o in Croazia.


Anche all’elementare Luigi Mauro di San Giovanni su 300 bimbi, la metà è straniera. A otto anni, Carolina ha le idee chiare: «La differenza più importante che contraddistingue le persone è il carattere», risponde al suo insegnante Roberto Benes. Niente accenni al colore della pelle del compagno Andrea. Anche qui ci sono importanti progetti di integrazione. Gli stessi avviati alla media Dante Alighieri con la docente Flavia Zanchi. «Perché si emigra?» c’è scritto sui muri della III F. «Per la povertà, per le malattie e per motivi politici», leggono gli studenti. «Bisogna coinvolgere chi viene ospitato nel nostro Paese», dice Giulia. «Anch’io sono emigrata», risponde Daniela, napoletana. «Mi hanno emarginato dov’ero prima a Fiuggi. Però a volte - aggiunge - sono gli stessi emigrati a discriminare. Il rapper Bello figo a un suo concerto ha fatto pagare il biglietto di più agli italiani…». «Io istituirei un seggio elettorale che rappresenti le varie comunità. Non per ghettizzare le persone straniere, sia chiaro, ma al contrario per agevolarle.


Ma quali sono le tradizioni da mantenere? Si possono mantenere cambiando Paese? Alla media Caprin si accende il dibattito. «Stato che hai, usanza che trovi» chiarisce Simone per tutti. Annuiscono le sue compagne Diellza e Bianca. Ma poi, entrando al liceo artistico Nordio si scopre anche che la cittadinanza può non fare così tanto la differenza. «Ci sono famiglie che non ce l’hanno e fanno una vita normalissima - afferma Lucia Salci. «In realtà agevola un sacco di cose - dice Nikola Simic, 18enne, serbo - però da quando ce l'ho, non mi è cambiata la vita».


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