Trieste, Juan Octavio Prenz, mitteleuropeo d’oltreoceano in ogni sua parola un mondo di burle linguistiche

TRIESTE “Uno scrittore triestino che scrive in spagnolo”: così si era definito pubblicamente Juan Octavio Prenz il 16 ottobre 2019, meno di un mese prima del giorno in cui, purtroppo, ci avrebbe lasciato. In quella serata, in cui Trieste ha avuto la fortuna di ascoltarlo per l’ultima volta parlare di sé e del suo lavoro, non aveva solo preso forma un omaggio alla vitalità dello scrittore e della persona, alla presenza di un intelletto e di un’arte acuti, ironici, mai scontati. Era diventato chiaro che Prenz era un punto di riferimento, un originale connubio di creatività e sguardo critico, una figura disincanta e profonda allo stesso tempo che riusciva a tenere insieme tanti mondi, tanti generi di scrittura, tanti piani temporali. Non è un caso che il volume, a cura dell’Università di Trieste, che è nato da quell’incontro - e che verrà presentato in anteprima domani alle 20.30 all’auditorio del Museo Revoltella, a un anno esatto di distanza -, raccolga prima di tutto tributi e omaggi di figure di primo piano della letteratura contemporanea: a partire da Claudio Magris che ricorda la “malinconica ironia” di Prenz, la sua convinzione di essere, come scrittore, un’invenzione dello stesso Magris, ma anche il contributo di domande, di esplorazione di mondi, di aperture di possibilità che la sua arte ci ha dato; fino a Gordana Ćirjanić, sua allieva e coautrice, che racchiude nella formula del “realismo bizzarro” la sua capacità di sfruttare appieno la miniera personale che ogni grande scrittore ha a disposizione per scandagliare le questioni dell’identità, della lingua, dell’eccentricità degli spazi e delle traiettorie culturali.
Perché il Prenz “mitteleuropeo d’oltreoceano”, secondo la definizione di Magris che dà il titolo al volume, si rivela qui una volta di più il centro di una rete densissima dei rapporti intellettuali, umani, e artistici che spaziano dal Sud America all’Europa orientale e oltre e che annoverano davvero tutti i nomi chiave di una repubblica mondiale delle lettere priva di un centro, ma continuamente in movimento. Un’idea questa che era alla base del modo in cui Prenz guardava alla letteratura, in uno spazio fatto non solo di scrittura creativa, ma anche di una pratica saggistica (di cui viene dato ampio conto nel volume attraverso i contributi di comparatisti come Daniel Pageaux o di ispanisti, come Giuseppe Grilli, tra gli altri). In questa cornice la lingua dunque diventa per forza una dimensione in cui non è possibile una e una sola identificazione, lo spazio dove il significato della parola intreccia il potere e mette al centro del proprio discorso il rapporto tra storia-memoria-poesia-vita, come spiega Elvio Guagnini. Ma anche lo spazio di un gioco irridente, di una “travesura” linguistica, parola intraducibile nella sua densità di accezioni, un po’ marachella un po’ burla, che Betina Prenz individua come termine chiave.
Su questo concorda Blas Matamoro che definisce Prenz un “lenguaraz”, un poliglotta ciarliero, un parolaio a suo agio in quella Trieste plurilingue e interculturale che sempre fatichiamo ad afferrare davvero nella sua complessità. Evidentemente per Prenz quella parola tanto usata e forse tanto poco praticata che è interculturalità non era una conquista, ma un fatto ovvio, fondamentale, un punto di partenza (lo sottolinea nel volume Gianni Ferracuti, analizzando quello che unanimemente ormai considerato come uno dei suoi capolavori, Solo gli alberi hanno radici; ma anche Paolo Quazzolo, che ricorda il suo ruolo nella creazione di un progetto concreto quale quello del corso di Interculturalità all’Università di Trieste). Tante, insomma, sono le chiavi che questo volume propone per dare conto di tutto quello che Prenz ha rappresentato e continua a rappresentare: Miran Kosuta parla di “armonica paradossalità”, Ottavio Di Grazia di “un’esperienza che prova a cogliere il balbettio del linguaggio e del mondo, scritta ai margini di un’attualità immediata”, Giuseppe Grilli di "un uomo di libertà, al plurale, e perciò afferrato all’idea e all’etica dell’ingenuità”; Marko Kravos di una condivisa “sorte di esiliato, da cui Octavio traeva quel suo credo da miscredente”, ovvero che “solo gli alberi hanno le radici”.
Perché ancora più che le interpretazioni e le letture parla in questo volume la letteratura, con un testo inedito in italiano, tradotto da Cecilia Prenz e originariamente scritto in spagnolo a quattro mani con Gordana Ćirjanić, che interroga i limiti stessi della finzione. E a testimonianza di quanto ancora possiamo pensare attraverso Prenz, non si può che concordare con la stessa Cecilia, che nelle sue intense riflessioni trova nell’idea di ciclicità, di apertura, di possibilità di guardare avanti, la cifra stessa dello scrittore e dell’intellettuale. Sono le sue stesse parole: “Cuentas claras, siempre a un menos seguirá un más”.
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