Trieste, in visita al campo profughi di Padriciano
Un uomo si arrampica sulle finestre per guardare inutilmente dentro, dov'era il suo 'box' ora non c'è più nulla. Un altro chiede alla guida indicazioni, conferme su luoghi, abitudini. C'è chi fotografa con fare nevrotico, alla ricerca del particolare: un utensile, uno sbaffo di calligrafia sulle Schede personali.
Il Campo profughi più grande di Padriciano, sul Carso, è aperto, come ogni primavera, al pubblico su iniziativa dell'Unione degli istriani. Numerose le persone che vi si recano (l'orario è dal lunedì al giovedì dalle 10 alle 12) e tantissimi anche gli studenti che arrivano da tutta Italia in gita scolastica: l'anno scorso sono stati 6.500, dice il presidente dell'Unione istriani Massimiliano Lacota. I manufatti nell'ex campo profughi hanno resistito alle intemperie: la mensa con l'alto camino, il cronicario per i malati, l'ampio salone bar, il cinema. Non hanno invece retto a freddo e bora le baracche in legno, che sono crollate: una finestra, una porta e una stanza, null'altro, nemmeno il bagno o la stufa. Chi era sistemato nei padiglioni non soffriva il freddo ma la mancanza di spazio: il box era grande come una cella e vi stavano in cinque, sette.
Chi alloggiava nelle camerate faceva scorrere tende tutto intorno per crearsi un'intimità. Campi furono allestiti o ricavati in tutta Italia, erano 103, ma questo di Padriciano è rappresentativo, perchè era appena al di là del confine con la ex Jugoslavia, in un'area abitata dalla minoranza slovena. Per questo all'esterno dell'area di otto ettari c'erano sempre carabinieri e polizia. Non una prigione, ma con orari di entrata ed uscita.
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