Trieste, i cimeli del Baron Gautsch dalla casa del sub al museo FOTO
TRIESTE È stato ribattezzato il Titanic dell’Adriatico. Si chiamava Baron Gautsch e colò a picco con un carico di morte di 130 vittime, in buona parte donne e bambini, al largo di Rovigno il 13 agosto 1914 poche ore prima di attraccare al molo San Carlo, oggi molo Audace di Trieste dove non arrivò mai.
La sua fine ha anche qualche nefasta analogia con la ben più recente tragedia della Costa Concordia. Era un piroscafo del Lloyd Austriaco che collegava Cattaro in Montenegro con Trieste e aveva l’ordine di viaggiare a 15 miglia della costa per non incappare nei campi minati fuori dai porti dell’Istria che l’Austria stava collocando essendo in guerra da due settimane.
Il Baron Gautsch in una situazione di piena luminosità e con il mare piatto andò a incappare nell’ultima mina, sistemata appena un quarto d’ora prima. Quando dopo l’esplosione in 3 minuti colò a picco si trovava a 8 miglia dalla costa. Il comandante Paolo Winter era nella sua cabina, alcuni passeggeri dissero con una donna, ma lui smentì.
Si potrebbe anche pensare al comandante Schettino e all’”inchino” all’isola del Giglio. Ben poche scialuppe di salvataggio vennero messe in acqua, dei 42 membri dell’equipaggio presenti a bordo, 41 si salvarono, mentre tra i passeggeri vi fu la strage.
Ai comandi c’era il secondo ufficiale Giuseppe Tenze che due settimane dopo sarà trovato morto su una spiaggia vicina, non da naufrago però, ma con un proiettile di pistola nella tempia. «Non è vero che si suicidò - hanno dichiarato recentemente i discendenti - ma morì prodigandosi per salvare più naufraghi possibile». Riposa al cimitero triestino di Sant’Anna.
Probabilmente a bordo non c’era alcuna orchestra che continuò a suonare come nel caso del Titanic, ma di certo l’affondamento segnò la fine di quella che era la Belle Epoque anche sull’Adriatico e quei passeggeri furono le prime vittime civili del conflitto mondiale. A bordo c’erano italiani, cechi, ungheresi, croati, austriaci anche di alto lignaggio, profughi che scappavano dalle prime zone di guerra portandosi dietro, si reputa, gioielli, denaro e argenteria.
Tra l’altro la presenza di una valigia piena di gioielli sarebbe attestata da un documento conservato all’Archivio di Stato di Trieste. Questi ingenti tesori sarebbero oggi ancora sepolti nei ponti inferiori della nave, ma da ieri alcuni cimeli sono esposti in una vetrinetta del Museo del mare di Trieste al quale sono stati ufficialmente consegnati con una cerimonia da parte della Guardia di finanza. Si tratta di tazzine, piatti, bottiglie, oltre a una scodella, una pentola e un vassoio d’argento: 25 pezzi complessivamente.
Erano tutti illecitamente a casa di uno dei più noti ricercatori subacquei triestini, da tempo impegnato nell’individuazione di relitti in tutti i mari del mondo. Oltre a questi aveva anche il ceppo di un’ancora da un quintale di epoca romana e un collo d’anfora presumibilmente del primo secolo dopo Cristo, recuperati anch’essi in acque oggi croate.
Tutto è andato ora ad arricchire il patrimonio pubblico triestino, già immenso se si pensa alle collezioni del Lloyd Austriaco poi Lloyd Triestino, dell’Autorità portuale, del Nautico, di Fincantieri, dell’associazione Aldebaran che costituiranno l’ossatura del nuovo Museo del mare che potrà trovare collocazione ideale soltanto in Porto vecchio. Un piccolo assaggio è visibile in questi mesi con la mostra sulle navi del Lloyd allestita all’ex Centrale idrodinamica.
Alla presenza del generale di Divisione, Giuseppe Gerli le vicessitudini del recupero dei reperti sono state raccontate dal colonnello Sante Tani e dal tenente colonnello Alessandro Bucci. Il processo sull’affodamento durò nove anni, ma sia Winter che Luppis che il Lloyd Austriaco vennero assolti da qualsiasi imputazione. Il comandante Paolo Winter continuò a navigare fino al 1923 e morì a Trieste nel 1944 a 73 anni.
Nel 1958 il palombaro triestino Libero Giurissini assieme a quattro colleghi di Spalato comincia la ricognizione dello scafo sommerso, nel 1972 un gruppo di sommozzatori americani ispeziona il relitto, ma ne sconsiglia il recupero a causa dei prevedibili altissimi costi.
Negli anni Novanta, dissoltasi la Jugoslavia con i suoi rigidi regolamenti, da un peschereccio che non riusciva a issare la reti, si cala un sommozzatore che rilocalizza la nave. Il relitto del Baron Gautsch, adagiato in modo spettrale sul fondo a quaranta metri di profondità diventa uno spettacolo goduto annualmente da centinaia di turisti subacquei provenienti da tutto il mondo che lo considerano una delle dieci immersioni più suggestive d’Europa. Ma continua a fare vittime: nell’agosto 2008 perde la vita il giovane subacqueo monzese Matteo Rovelli, nel luglio 2014 è la volta di un sub belga.
Nel 2008 i reperti vengono sequestrati al sub triestino che non ne aveva fatto denuncia come previsto dalla legge. Passano gli anni e il processo si conclude. A seguito della condanna il giudice ne ordina la confisca e la distruzione. Ma interviene appunto la Guardia di finanza e in collegamento con il ministero dei Beni culturali, la Soprintendenza e la Direzione musei fanno dichiarare l’importanza storica dei reperti e ottengono il loro affidamento in custodia permanente al museo triestino. «Uno splendido esempio di sinergia tra diverse istituzioni», ha commentato a conclusione della cerimonia di ieri il generale Gerli.
Sulla tragica vicenda del piroscafo del Lloyd Austriaco il giornalista e scrittore triestino Pietro Spirito ha scritto un romanzo: “L’ultimo viaggio del Baron Gautsch”. Il regista Renzo Carbonera ha realizzato invece un documentario: “Il mistero del Baron Gautsch” (produzione SDcinematografica con il contributo della Film Commission del Fvg). L’attrice Sara Alzetta ne ha ricavato anche uno spettacolo teatrale con musiche di Giulio Centis. Ma i tesori del Baron Gautsch restano ancora lì, 40 metri sotto il mare.
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