Trieste, gaffe Slow Food: inserisce Suban tra le osterie

TRIESTE Ma alla fine, cos’è un’osteria? Decisamente il termine si è stemperato nel tempo, se oggi vengono conglobate nella categoria anche realtà di ben altro spessore o, per usare un termine moderno, “target”. La considerazione sgorga spontanea alla lettura della nuova guida “Osterie d’Italia 2016”, realizzata da Slow Food e presentata a Villa Manin. Un’opera omnicomprensiva, che va dalle Alpi alla Sicilia ma lascia aperto più di qualche dubbio sulla effettiva corrispondenza delle scelte alla tipologia dei locali.
E qua si torna all’inizio. Per restare in ambito dizionario, dicesi di osteria «locale pubblico dove si servono vino, altre bevande e spesso pasti alla buona». Alla buona? Una parte non trascurabile del comunque prezioso “baedeker” in realtà trasforma in osterie anche locali di comprovato prestigio che definire «alla buona» suona quasi come un sacrilegio.
Un esempio? Pare che l’unica “osteria” acclarata a Trieste sia nientemeno che “Suban” (?). Dimenticando decine, centinaia di posti e “spaceti” che avrebbero diritto pieno di cittadinanza in quel contesto e farebbero la loro figura. E la considerazione che la sola, accurata visita di un rione come San Giacomo ne sfornerebbe a decine, oltre a uno spaccato antropologico di rara precisione.
La Guida, magari, si salva in corner indicando alcuni buffet locali, in realtà, forse, quelli più vicini al concetto. Ed ecco dunque parole affettuose per i nostri posti più amati, come minimo osterie dell’anima. Nella fattispecie si va dal Bennigan’s Pub a Da Bepi (per il politically correct omettiamo il nome popolare...), da Siora Rosa all’Approdo, e poi da Rudy (meglio noto come Spaten, in via Valdirivo) al Sandwich Club, vera istituzione di via Economo, al termine delle Rive, per poi finire nei popolari Campi Elisi, citando Toni da Mariano.
Sul Carso, invece, spazio per Sardoc, quello di Slivia famoso per la griglia, Gruden di San Pelagio, casa dei “gnochi de pan” e per finire Milic di Sagrado del Carso.Finito? No. A conferma della non etichettabilità di Trieste, sempre e comunque, i recensori della guida hanno voluto, giustamente, comprendere anche un fenomeno tutt’altro che trascurabile, quello delle “osmize”. E qui, Zingarelli alla mano, siamo forse nell’area più vicina al concetto madre.
Ne fanno parte Sonia Radetich (anche caseara a Medeazza), un produttore quotato come Sandi Skerk, che nella sua osmiza si diverte, Antonio Zamar di San’Antonio in Bosco e Silvano Ferluga di Pis’cianzi, a Roiano. Anche qui i redattori si sono fatti venire degli scrupoli. Se, dunque, capitate in qualche posto apparentemente “domacio” e pagate come al Danieli non dite che non eravate stati avvisati...
Restando nell’etimologia, non è che i dubbi si spengano quando si ha a che fare con il Friuli Venezia Giulia. Al primo posto, per dire, c’è “Ai Cacciatori” di Cavasso Nuovo, posticino decisamente carino e poco ruspante, così come “Borgo Poscolle” di Cavazzo Carnico, che lo segue. Di Borgo Colmello, a Farra d’Isonzo, terzo in classifica, si può dire tutto, magari accostarlo agli agriturismi, ma la sua cucina è tutt’altro che buttata su.E che dire dei “Ciodi” delizioso posto situato nella laguna di Grado.
Certo, se nella terminologia di base rientrano anche posti con offerte di pesce da applauso, ci può stare ma... Confessiamo la nostra non conoscenza del quinto classificato, “Ivana e Secondo” a Pinzano al Tagliamento, ma di sicuro Avguštin Devetak, che dal suo locale sul Vallone si premura di mandare avanti i piatti del territorio, a vedersi nel gruppone degli osti sarà rimasto perplesso. E così da “Afro”, a Spilimbergo, magari lo stesso “Sale e Pepe” di Stregna, mentre magari si avvicinano un po’ di più alla offerta-tipo “Da Alvise” di Sutrio e la “Stella d’Oro” di Verzegnis. Visti i precedenti, ovviamente non c’è nessun locale triestino nella “top ten”. Pare non esistano...
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