Trieste futura: passeggiando in Porto Vecchio nel 2023

Un salto nel 2023 con la scrittrice Federica Manzon per immaginare come cambieranno le aree della città che adesso sono abbandonate

di FEDERICA MANZON

È da poco passato il Carnevale e fa molto freddo. Questo inverno del 2023 già si candida a entrare nella storia per la forza eccezionale delle raffiche di bora e per i suoi cieli azzurri senza pioggia. Guardo la targa che hanno appeso all’entrata del Porto vecchio, di quella che fino a una decina di anni fa era la città proibita. Le parole di Franco Basaglia suonano bene, verrebbe voglia di vederle dipinte in colori arcobaleno dalla mano di un bambino, a lui probabilmente sarebbe piaciuto o forse è solo la mia immaginazione.

In stazione il tabellone annuncia l’arrivo in orario di molti treni, da quando le ferrovie austriache hanno preso in gestione i trasporti regionali la città sembra di nuovo collegata con la nazione, ma a caro prezzo. Aspetto l’arrivo di un amico da Milano, è nato a Trieste cinquant’anni fa e se n’è andato ancora bambino, teme di non riconoscere la sua città e mi ha chiesto di fargli da guida.

Quando scende da treno mi abbraccia: «Lora, come xe?». È contento di aver ritrovato il vento di casa, il dialetto che non ha mai smesso di parlare nemmeno là a ovest dove per anni si è addormentato sognando i cieli del Carso, il verde degli alberi che sembra precipitarti addosso mentre fai il bagno nell’acqua blu di Barcola. «’Ndemo?» mi spinge impaziente.

Iniziamo dal Porto vecchio, e per un attimo vedo anche lui commuoversi davanti alle parole di Basaglia, ma forse è solo il vento che fa lacrimare gli occhi. Passeggiamo per i viali pedonali che in qualche punto hanno conservato la traccia dei vecchi binari. Ci inoltriamo tra i vecchi magazzini ristrutturati, molti dei quali con interventi di autorestauro. Il mio amico non era mai stato qui, lo spazio gli sembra immenso, un vero e proprio quartiere negato per anni alla città.

«E pensa» dico scherzando, «poteva diventare un centro commerciale o un mega complesso abitativo con prezzi da zio Paperone, poteva diventare un gigantesco polo commerciale senza nessuna logica sostenibile per la città».

Entrambi pensiamo alle erbacce e ai fiori di campo che crescevano portati dalla Bora tra le crepe di questi muri abbandonati, la ruggine e il silenzio assoluto che vi aleggiava. Una quiete da disarmo, da luogo di confine pronto a essere sacrificato al nemico e abbandonato in tutta fretta. Invece oggi tra i viali tira una bella aria calma e sportiva, da città del nord Europa.

Passiamo davanti all’hangar numero 6 e i vetri ci rimandano di riflesso la luce azzurra del mare. Gli spazi ora sono tutti dedicati al coworking: giovani architetti, imprenditori che vogliono dare vita a nuove imprese starup, esperti di fondi europei, psicologi, tutti lavorano qui condividendo costi e valori. Non ci sono solo i vantaggi economici, ma anche qualitativi, nel continuare il proprio lavoro indipendente ma a stretto contatto con persone di talento. Così molti giovani sono tornati a lavorare e a costruire le loro vite in città.

Camminiamo verso il Magazzino 26 che ora è diventato centro permanente di mostre, grazie agli stretti rapporti con i maggiorni musei dell’est. Dal piano terra, tra le gallerie d’arte, escono i tavolini del bar e sono per metà pieni nonostante il freddo. Una coppia di anziani se la ride guardando i manifesti sulla facciata del magazzino di fronte, ora teatro sperimentale animato quasi ogni sera da un fitto calendario che attira spettatori anche dai comuni vicini.

Vicino ai moli, i vecchi edifici hanno mantenuto il loro aspetto originario, e ai Magazzini 24 e 25 si possono ancora vedere gli abbeveratoi che un tempo dissetavano gli animali prima di imbarcarli. Qui in primavera si tiene la fiera della nautica e migliaia di persone ne approfittano per visitare il museo navale, diventato uno dei più importanti d’Europa.

Verso il fabbricato 19 stanno allestendo un acquario. «Come quel dela Pescheria» osserva il mio amico. Vorrebbe andare a vedere, gli piacciono i pesci e gli animali del mare, come a molti bambini che vengono in gita in città a visitare il castello di Massimiliano. Ma i lavori non sono ancora finiti e bisognerà attendere qualche mese.

Ci fermiamo in un bar a prendere un caffé, contornati da mamme con i passeggini che portano i pargoli allo spazio per l’infanzia creato da Biblioteca, Comune, Conservatorio e alcune associazioni sportive: pagando un piccolo canone annuale i genitori possono lasciare qui i bambini qualche ora alla settimana mentre vanno a teatro o visitano una mostra, o si fanno una chiacchierata con gli amici, intanto i piccoli si divertono in attività di psicomotricità, letture animate, giochi musicali.

Il mio amico ordina un capo in b e mi guarda meravigliato. «Ma come i ga rivà a far tute ‘ste robe? No iera punto franco?». Dovrei dirgli che ora i metri di porto franco sono stati trasferiti altrove e che c’è stato un lungo processo, non proprio indolore, per arrivare all’oasi che ha sotto gli occhi, ma bisognerebbe spiegare troppe cose, lui è lontano da tempo e poi non è giornata. Oggi dobbiamo continuare a goderci la città.

Lasciamo il Porto vecchio e continuiamo lungo le Rive. «Ma qua no iera la stazion dele coriere?» domanda incredulo vedendo comparire il profilo della sala Tripcovich, ricordandosi di quando bambino veniva qui a salutare la zia che aspettava la corriera per tornare in Jugoslavia, assieme ad altri signori con borse di plastica zeppe di jeans e maglioni sintetici.

Gli racconto che la sala era nata come succursale del Verdi per ospitare i concerti della lirica, ma poi era stata dismessa. Qualche anno fa è stata data in gestione a un gruppo di ragazzi che lavorano nelle webradio locali e loro l’hanno trasformata in un polo d’attrazione per tutta la gioventù del Friuli e dall’Istria. Si arriva in treno, si ascoltano concerti quasi sempre gratuiti, si balla, si pagano le consumazioni un prezzo ragionevole e c’è perfino un servizio di corriere a notte avanzata che riporta tutti a casa. Funziona così bene che ormai anche i gruppi più affermati si mettono in coda per venire a suonare qui, e i ragazzi, ma anche molti adulti, di Trieste hanno un appuntamento fisso nel week end. Non ne sono sicura, ma credo che da qualche parte sul retro abbiano ricavato anche una sala prove e una sala registrazioni che affittano durante la settimana.

Il mio amico, che è sempre stato un musicista provetto, è entusiasta. Poi si gira e mi intima allegro: «Bon dei, basta torziolar. Portime de Pepi a magnar un panin co la porzina, che voio far el turista!»

Inizia qui un viaggio nella Trieste del futuro, come si potrebbe immaginarla a partire dagli spazi che ora sono abbandonati o inutilizzati. Una città ancora in testa alle classifiche per la qualità della vita, centro di nuove politiche commerciali e urbanistiche improntate alla sostenibilità, alla valorizzazione delle risorse culturali, scientifiche, sociali.

Un viaggio che parte dal mare, per attraversare poi la città e arrivare fino al Carso. Tre racconti che potrebbero essere un’utopia, ma anche la prefigurazione di una realtà. E poiché Trieste è una delle poche città d’Italia in cui si entra senza attarversare periferie degradate, ma slanciandosi in un improvviso squarcio sul mare, è dal mare che questo viaggio comincia...

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