Trieste, edilizia in crisi: esodo di muratori serbi
TRIESTE «Dovidjenja». È un arrivederci che ha il sapore amaro dell’addio, quello pronunciato da una buona fetta della comunità serba di Trieste, costretta a lasciare la città dopo decenni di permanenza e di proficua integrazione all’interno del tessuto sociale locale. Sarebbero più di duemila i serbi “triestini” ad aver rifatto le valigie negli ultimi quattro anni, in risposta a una crisi economica che si è particolarmente accanita contro il comparto dell’edilizia, settore nel quale storicamente sono stati impegnati i cittadini provenienti dalla repubblica balcanica.
Se è vero che a Trieste non si sposta un mattone senza l’impiego di un operaio serbo, è presto spiegato il motivo di questo esodo forzato: di mattoni, infatti, a Trieste se ne spostano sempre meno e il settore delle costruzioni appare oramai agonizzante. Nel 2010 i serbi in città erano circa 11.600, mentre attualmente la loro presenza è scesa ampiamente sotto le 10mila unità. «Un anno fa, in occasione di un incontro promosso a Trieste dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali - spiega il presidente della Comunità serba triestina Zlatimir Selakovic - , le cifre raccontavano di una presenza in città di circa 9.600 persone di nazionalità serba. Oggi, con tutta probabilità, siamo scesi al di sotto di quella soglia».
Quella guidata da Selakovic rimane comunque la realtà straniera più numerosa a Trieste. Le sue radici affondano nella prima metà del 1700, in seguito all’arrivo in città dei primi commercianti serbi trasferitisi dall’Erzegovina, dalla Bosnia, dal Montenegro, dalla Dalmazia e, subito dopo, anche dallo Srem, dal Banat e dalla Lika. «La nostra è una storia di integrazione - sottolinea padre Rasko Radovic, parroco della comunità serbo-ortodossa di Trieste - , fatta di ottimi rapporti con le istituzioni, con le altre religioni e con tutti i cittadini residenti. Vantiamo una notevole autonomia culturale, economica e organizzativa. Trieste è sempre stata per noi la porta dei Balcani, un luogo naturale dove scegliere di emigrare».
La carenza in Italia di determinate figure professionali, infatti, aprì la porta a migliaia di cittadini serbi. Gli uomini, molti dei quali altamente qualificati, vennero inseriti in quei comparti dove maggiore era la mancanza di manodopera italiana, come nel caso dell’edilizia, mentre a molte donne venne affidato il ruolo di badante o di collaboratrice domestica. Il terremoto del 1976 richiamò in regione un gran numero di eredi di San Sava, per partecipare attivamente alla ricostruzione del Friuli.
Ma il flusso più importante dai Balcani si registrò nei primi anni Novanta, a seguito della dissoluzione della Repubblica federale jugoslava. In molti arrivarono dall’area di Pozarevac, una città a circa 120 chilometri da Belgrado, vicino al confine con la Romania. Il 90 per cento dei serbi che vivono a Trieste proviene da questa zona. «Tanti di loro mi fermano al termine delle celebrazioni domenicali - racconta padre Radovic, che dal 1990 rappresenta un faro per la comunità triestina - , per raccontarmi dei loro problemi economici, frutto della perdita del posto di lavoro». Non deve stupire, quindi, se molti scelgono di lasciare Trieste per andare a cercare fortuna altrove. «Alcuni ritornano in Serbia - continua il parroco serbo-ortodosso - , mentre altri si dirigono verso l’Austria, la Svizzera o la Germania, dove possono contare su maggiori possibilità di reinserimento lavorativo e sull’appoggio di alcuni parenti che li hanno preceduti».
Cosa fare per interrompere questo esodo? Se l’è chiesto la Comunità serba triestina, che ha scelto di non rimanere passiva di fronte a questa lenta e costante emorragia occupazionale. «Entro l’estate apriremo lo “Sportello per i serbi” - afferma Selakovic - per dare assistenza a quelle persone che si trovano in difficoltà. Il punto di ascolto, che è il frutto di un progetto finanziato dalla Regione, troverà spazio nello stabile di via Genova 15». Le problematiche alle quali lo sportello si propone di far fronte sono molteplici e riguardano, ad esempio, l’ottenimento e il rinnovo del permesso di soggiorno, il rispetto dei diritti legati al mondo del lavoro e a quello della previdenza sociale. «Una persona con il permesso di soggiorno in scadenza - spiega Lidija Radovanovic, vicepresidente della Consulta comunale degli immigrati - vive in un clima di insicurezza e può essere sottoposta a sfruttamento, abbassamento dello stipendio e, in alcuni casi, a ricatto da parte dei datori di lavoro disonesti. Se perde il lavoro, anche dopo anni di permanenza in Italia, ha un anno di tempo per trovarne uno nuovo. In caso contrario diventa un immigrato irregolare, insieme a tutta la famiglia a carico». Sono questi i casi in cui l’emigrazione ritorna a essere l’unica strada percorribile.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo