Trieste e il 25 aprile, un'occasione sprecata
TRIESTE Nel 1951 in pieno maccartismo Dashiel Hammet – lo scrittore cui dobbiamo la nascita della moderna detective story – viene indagato per attività anti-americane. Non ha nulla da rivelare, ma di fronte alle domande che gli vengono poste, si appella al quinto emendamento. Ciò comporterà sei mesi di reclusione, che incideranno profondamente sul suo fisico già minato.
Qualche anno più tardi racconterà alla compagna Lilian Helmann di essere arrivato a quella scelta perché «non permetterò mai che siano i giudici o i poliziotti a dirmi cosa sia la democrazia». Queste parole mi sono rivenute in mente pensando al nostro 25 Aprile, alle polemiche che abitualmente lo accompagnano, alle ovvie piegature alla congiuntura politica spicciola e alle modalità – tutte legate all’esternazione, alla cifra del rito e della retorica (se pur nobile) che la data della liberazione nazionale si porta dietro. Sembra infatti prevalere – e forse è stato così fin dall’inizio – il “valore raccontato” rispetto al “valore vissuto”, la dimensione pubblica rispetto a quella intima, ciò che gli altri “dicono” piuttosto che ciò che “io sento”.
Forse si tratta di una caratteristica squisitamente italiana, forse in questo paese “appassionato e fragile” (Aldo Moro) serve sempre che la privata convinzione trovi rappresentazione pubblica e istituzionale. Così non accade, e non da oggi. Da almeno un quarto di secolo. Non penso infatti che Silvio Berlusconi nutrisse nei confronti del 25 Aprile sentimenti così diversi da quelli che ostentatamente mostrano di avere Salvini e tanti altri. Credo semplicemente che la sua sordità, la sua indifferenza, la sua peculiare forma di anti-politica – appena patinate da una leggera vernice pseudo liberale – fossero solo tenute a freno da ragioni di convenienza, strumentalità politica, ambizione. Contemporaneamente varrebbe la pena di riflettere sul fatto che anche chi riveste cariche istituzionali e in cuor suo disprezza e volentieri farebbe a meno di questa giornata è costretto a chinare il capino e a ritrovarsi su un palco a “celebrare” qualcosa che non sente suo.
Come ha scritto Francesca Romanini su Facebook «noi non siamo in campo per vincere: noi abbiamo già vinto il 25 aprile 1945 sul nazifascismo, e siamo tantissimi», evidenza storica piuttosto difficile da cancellare e per la quale non bastano un paio di felpe e qualche slogan. È proprio per questo che stupisce la decisione di Anpi e Cgil di non partecipare alla cerimonia ufficiale in Risiera, ma di convergervi solo successivamente. Peccato, perché si sono persi un intervento “a capo chino” del sindaco di Trieste, contro cui è rimbalzata una voce molto nitida dal pubblico a sottolineare come non si possa essere «antifascisti una volta all’anno» e a suggello il discorso del sindaco di San Dorligo della Valle, puntualissimo nella rilettura storica e impietoso nell’analisi della stagione odierna.
Peccato, perché le due folle sommate (e del tutto compatibili) avrebbero dato vita a un insieme come non se ne vedeva dagli anni Ottanta. Peccato perché, a mio personale avviso, la doppia manifestazione su un piano squisitamente politico equivale a una sconfitta e come tale verrà letta. Dubito assai che in analoghe circostanze uno come Guido Botteri e ancor più uno come Vittorio Vidali avrebbero lasciato il campo. Credo che avrebbero stipato il cortile della Risiera con i loro popoli, diversissimi fra loro e strenuamente avversi, ma entrambi azionisti di quel patrimonio che chiamiamo 25 Aprile. Popoli che, ieri come oggi, non hanno bisogno di un sindaco, di un presidente di Regione o della Repubblica, per sapere cosa significhi il 25 Aprile. Gli uomini delle istituzioni cambiano, i popoli e gli individui che a loro danno vita restano: madri, padri, figli e nipoti. –
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