Trieste: due gemelli con le tube legate, sarà risarcita

La Cassazione dà ragione alla donna (aveva già tre figli) che aveva citato i medici del Burlo. Da anni sulla soglia della povertà
Di Corrado Barbacini
Paolo Giovannini, Trieste 13/12/2008, Burlo.
Paolo Giovannini, Trieste 13/12/2008, Burlo.

Una donna, già madre di tre figli che vive in 70 metri quadri con un reddito di meno di mille euro al mese, è rimasta ugualmente incinta dopo che le sono state legate le tube uterine.

Ha chiesto al Burlo e ai medici il risarcimento dei danni. La Cassazione alla quale si era appellata tramite l’avvocato Alessandra Falagiani le ha dato ragione e ha cancellato la sentenza d’appello che era stata pronunciata nel 2007 dai giudici di Trieste rinviando la causa a un’altro collegio. In pratica - secondo la Suprema corte - la donna già reduce di tre parti cesarei avrebbe dovuto essere informata correttamente del fatto che non sempre la chiusura delle tube possa impedire la gravidanza. Perché in realtà le avevano fatto sottoscrivere un modulo nel quale i due coniugi venivano informati della irreversibilità dell’intervento di sterilizzazione. La vicenda che di fatto rappresenta il preludio di un maxirisarcimento per lesioni permanenti e danno della vita di relazione al quale potrebbe essere costretto a pagare il Burlo con le sue assicurazioni e anche i ginecologi, porta la data di 17 anni fa. «Perché da allora - spiega l’avvocato Falagiani - la signora ha vissuto praticamente della carità degli altri. Si è dovuta rivolgere ai servizi sociali. Anche perché nel frattempo il marito si è ammalato»

Tutto è accaduto a distanza di un anno dall’operazione che una ginecologa del Burlo aveva aveva definito «irreversibile» e «del tutto sicura» sul piano della procreazione. Così all’improvviso e incredibilmente per quello che le avevano detto e scritto, la protagonista di questa vicenda si è accorta di essere in attesa di due gemelli. Per lei è stato un tuffo al cuore. E nonostante la gravissima situazione economica della famiglia si è rifiutata di sottoporsi all'aborto terapeutico. «Non si possono sopprimere due vite che stanno sbocciando», aveva detto.

La gravidanza si è rivelata tutt'altro che facile e il quarto parto cesareo ha aggravato ulteriormente la salute della donna. I nove mesi li ha passati praticamente a letto. Ha dovuto ridimensionare il suo impegno di lavoro e il piccolo bar in cui collaborava col marito, è entrato inevitabilmente in crisi. Tant’è che in breve la famiglia l’ha dovuto cedere nell'impossibilità di gestirlo in proprio. Troppi impegni con i cinque figli, troppo compromessa la salute della mamma.

La vendita del locale ha però privato la famiglia della più importante fonte di reddito e in breve le entrare non sono più state sufficienti a garantire la sopravvivenza. Insomma si è arrivati al default: affitto, bollette, telefono, pannolini, latte in polvere, abiti e tutto ciò che serve a bambini, ragazzi e adulti. Una spirale di debiti.

Anche le cause in primo e in secondo grado non le hanno dato ragione. Così la donna ha giocato l’ultima carta. Quella della Cassazione. E il collegio della terza sezione civile presieduto da Fulvio Uccella e composto da Giovanni Carleo (relatore), Giuseppina Luciana Barreca, Antonietta Scrima, Francesco Maria Cirillo le ha dato sì ragione. Si legge nella motivazione: «L’indadempimento (ndr dei medici) consiste nell’aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta, non solo con riguardo alla corretta esecuzione della prestazione sanitaria ma anche con riferimento a quei doveri di informazione e di avviso definiti prodromici e integrativi dell’obbligo primario della prestazione». In sostanza i giudici osservano che «in considerazione del particolare contesto temporale in cui l’intervento veniva eseguito, rientrando nel comune patrimonio delle conoscenze di un ginecologo, ma non anche di una paziente, che la legatura delle tube, eseguita in occasione di un parto cesareo, essendo i tessuti edematosi, non assicura l’irreversibilità della sterlizzazione e può risultare inadeguata a impedire la discesa dell’ovulo quando i tessuti medesimi tornano in condizioni di normalità». Spiegano ancora i giudici che «l’adempimento di tale obbligo informativo da parte dei sanitari avrebbe non solo evitato la violazione del diritto all’autodeterminazione della paziente, resa consapevole circa la non definitività della sterlilizzazione ed informata quindi, in maniera completa ed esaustiva, sul bilancio rischi-vantaggi derivante dall’intervento, ma le avrebbe altresì consentito di adottare le opportune misure nonché gli ultimi accertamenti e controlli clinici, atti a impedire gravidanze non volute».

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