Trieste, definì il collega «ebreo», assolto pure in appello

L’avvocato Turco era accusato di diffamazione aggravata dall’odio razziale per le parole pronunciate in aula verso Kostoris
L’interno del Palazzo di giustizia di Foro Ulpiano in una foto d’archivio
L’interno del Palazzo di giustizia di Foro Ulpiano in una foto d’archivio

TRIESTE L’«ebreo querelante»: così l’avvocato friulano Giuseppe Turco, 71 anni, oggi in pensione, aveva definito il collega Alberto Kostoris, del Foro di Trieste nel novembre ’13 alla prima udienza di un processo in cui sosteneva la difesa dell’allora capogruppo della Lega Nord di Trieste Paolo Polidori, chiamato a rispondere di istigazione all’odio razziale sulla scorta di una denuncia che proprio Kostoris aveva presentato in quanto «fiero appartenente al popolo ebraico». A monte, alcune espressioni ritenute di carattere antisemita che Polidori aveva pronunciato l’anno prima a un congresso provinciale del partito.

A portare a conclusione il procedimento – con il patteggiamento della pena di duemila euro di multa, oltre alle scuse alla comunità ebraica – era stato poi un altro legale.

A Turco era rimasta però in eredità l’ulteriore denuncia che l’avvocato Kostoris non aveva esitato a presentare anche contro di lui. Identica l’accusa formulata dalla Procura giuliana: propaganda di idee fondate sull’odio razziale. Oppure, come suggerito in secondo grado dalla Procura generale, diffamazione aggravata dalla finalità dell’odio razziale.

Nessuna delle due ipotesi di reato ha retto però alla prova processuale. Assolto nel 2018 dal Tribunale collegiale di Trieste «perché il fatto non sussiste», l’avvocato Turco ha visto confermata l’altro giorno la sentenza di primo grado anche in sede di Appello, a fronte della richiesta di condanna a quattro mesi di reclusione avanzata dalla pubblica accusa e di quella di risarcimento del danno «da devolversi in opere buone», presentata dall’avvocato Piero Fornasaro de Manzini, con cui il collega Kostoris si era costituito parte civile.

«Per quanto spregevole – aveva scritto nelle motivazioni il primo collegio giudicante riferendosi a Turco – il suo comportamento non integra la condotta contestata e non rappresenta quindi un concreto pericolo di diffusione di idee di odio razziale».

Gli atti erano stati tuttavia trasmessi all’Ordine degli avvocati, affinché fosse valutata la «scorrettezza» della condotta sul piano deontologico.

«È stata una provocazione – ha sostenuto il difensore di Turco, l’avvocato Carlo Monai, davanti alla Corte d’Appello presieduta dal giudice Edoardo Ciriotto –. L’avvocato Turco notoriamente interpreta la professione in modo ruvido e caparbio». Quanto all’ipotesi della diffamazione, il legale ha osservato come nel capo d’imputazione non vi fosse alcun riferimento all’ingiuria. «Ha usato espressioni “fuori contesto” e quindi inopportune», ha detto, bollandole come «una caduta di stile».—


 

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