Trieste, Confindustria vuole la presidenza camerale
TRIESTE. I toni sono (quasi) diplomatici, ma il concetto è chiaro: una Camera di commercio non è una proprietà privata, tantomeno una imperitura dimora. Serve un ricambio. Il messaggio, tutt’altro che velato, parte dal mondo confindustriale ed è diretto ad Antonio Paoletti, l’inquilino di piazza della Borsa in scadenza di mandato a Trieste con progetti di vertice sul nuovo ente camerale della Venezia Giulia, ormai in cantiere.
Uscire dalla porta per rientrare dalla finestra, si dice. «Basta così, tocca a Confindustria esprimere un presidente», obietta Federico Pacorini invocando il rinnovo. L’imprenditore, ex presidente degli industriali triestini, figura di spicco e attuale componente del collegio dei probiviri della categoria, fa sentire la propria voce in piena guerra di poltrone sul futuro organismo regionale unico.
Obiettivo indicato dal governo Renzi nella riforma della Pubblica amministrazione (legge Madia), che impone l’aggregazione per le Camere di commercio che non superano il tetto delle 75 mila imprese associate. Una tegola per gli enti camerali di Trieste, Gorizia, Udine e Pordenone, tutti ben al di sotto di quest’asticella e quindi chiamati a mettersi insieme per approdare – chissà quando e chissà se – a un sistema unico. Siamo al “si salvi chi può”. Non fosse che la stessa norma, grazie a un emendamento carsico del capogruppo Pd a Montecitorio, Ettore Rosato, permette alle province di confine di aggirare l’ostacolo.
Pericolo scampato, pare. Da noialtri, intanto, si procede con un gattopardesco sistema in due step: da una parte l’area giuliana e isontina si sono attrezzate con una fusione che sta portando alla nascita della Camera delle Venezia Giulia; dall’altra Udine, guidata dal presidente Giovanni Da Pozzo, pronta a risucchiare la numericamente più debole Pordenone.
Il disegno è contenuto, nero su bianco, nel documento sottoscritto lo scorso 5 luglio proprio da Paoletti, Da Pozzo e dal goriziano Gianluca Madriz. Carta straccia per il pordenonese Giovanni Pavan, che si è sfilato e ha rifiutato di firmare.
Chiede di creare subito un ente unico, Pavan, minacciando di fare squadra, piuttosto, con Treviso o Venezia. Da Pozzo fa l’attendista e conta sul fatto che la fusione tra Camere di commercio di differenti regioni non sia amministrativamente permessa. E Paoletti punta dritto alla guida della Camera della Venezia Giulia, forte di un patto con il segretario generale goriziano Pierluigi Medeot: al primo la presidenza, all’abile e navigato dirigente la conduzione degli uffici post fusione Trieste/Gorizia.
Grandi manovre, insomma, che affondano radici nel passato. «Io vengo da una storia molto lunga – premette Pacorini – ricordo che già nel 2000, quando ero alla presidenza degli industriali e Donaggio stava all’ente camerale come espressione dei commercianti, era emersa una legittima turnazione nella rappresentanza. Ciò perché una Camera di commercio è la casa di tutte le categorie, quindi è necessaria un’alternanza con artigiani e commercianti. Allora – racconta – avevamo trovato un accordo con le categorie per indicare la figura di Paoletti alla guida».
Tre mandati, da quella volta, e nulla è cambiato, come si è visto. «Lui è sempre là – osserva Pacorini – il suo insediamento si è cristallizzato nel tempo. E questa sarebbe la turnazione promessa? Adesso hanno fatto una fusione con Gorizia e lui potrebbe mirare di nuovo alla presidenza». La storia che si ripete. «Non è accettabile – insiste – una Camera di commercio è espressione di tutti gli imprenditori. E lui, faccio notare, nel frattempo ha mantenuto pure la presidenza dei commercianti: è un evidente conflitto di interessi, al quale non ha mai voluto porre rimedio. Alla fine – rincara – se sommiamo i tre mandati di Paoletti a quelli di Donaggio, sono decenni che Confindustria non esprime un proprio presidente. Penso e spero che Confindustria stavolta non stia a guardare, perché è arrivato il momento di voltare pagina».
La parola tocca a Sergio Razeto, ma in fondo chiama in causa pure Giuseppe Bono, che da capoazienda di Fincantieri è associato a Gorizia. E Bono si sa bene che non è farina da far ostie.
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