Trieste, assoluzione bis per gli 8 poliziotti finiti sotto processo nel caso Alina
TRIESTE Conferma della sentenza di primo grado con assoluzione che, a questo punto, si avvia a diventare definitiva visto che lo stesso procuratore generale aveva chiesto di riconoscere l’innocenza di tutti i poliziotti imputati. Un verdetto emesso nella tarda mattinata di ieri dalla Corte d’Appello presieduta da Igor Maria Rifiorati (con Anna Fasan e Fabrizio Rigo) che mette la parola fine al procedimento giudiziario legato al caso di Alina Bonar Diaciuk, la 32enne ucraina che nell’aprile 2012 si era suicidata con il cordino di una felpa in una camera di sicurezza del commissariato di Opicina.
Le indagini si erano allargate alla permanenza nella struttura di decine di altri migranti in attesa di espulsione i quali, secondo la tesi accusatoria del pm Massimo De Bortoli, in quel periodo sarebbero stati trattenuti irregolarmente. Da qui era emersa l’ipotesi del sequestro di persona. A processo erano finiti così anche funzionari dell’Ufficio immigrazione della Questura, oltre agli agenti del Commissariato, incaricati della sorveglianza, in servizio il giorno in cui Alina si tolse la vita. L’inchiesta aveva finito per mettere in discussione il modus operandi seguito dalla Questura per quanto riguardava la gestione dei migranti che arrivavano nell’area triestina, fenomeno tuttora di stringente attualità.
L’impianto accusatorio in primo grado si basava in particolare sulla normativa che indica il Centro di identificazione (Cie) come sede dove trattenere il destinatario di un provvedimento di espulsione in attesa del perfezionamento dell’iter amministrativo, mentre il trattenimento in altro luogo sarebbe da ritenere illegittimo. Nel corso del processo con rito abbreviato davanti al giudice Giorgio Nicoli era emerso, però, che le direttive sulla gestione dei profughi in uso a Opicina risultavano condivise a livello istituzionale. Il pm aveva proposto pene che andavano dai 5 anni e 9 mesi a un anno, un mese e 10 giorni
Nelle motivazioni della sentenza di primo grado Nicoli aveva sottolineato che «la polizia ha il dovere di trattenere lo straniero anche se non ha commesso un reato, per il solo avvenuto accertamento che egli sta circolando nello Stato senza averne il titolo e, dunque, sta violando la legge». Nella penultima udienza era stato lo stesso procuratore generale della Corte d’Appello, Dario Grohmann, a chiedere la conferma della sentenza assolutoria di primo grado. Era stato ritenuto «encomiabile che la Questura avesse attrezzato locali idonei e decorosi per gli stranieri trattenuti – aveva sottolineato nella sua memoria –, evitando in tal modo faticosi trasferimenti al Cie».
Assoluzione, dunque, per tutti gli imputati con formula piena. L’ex responsabile dell’Ufficio immigrazione della Questura Carlo Baffi, il vice Vincenzo Pasinati, Alberto Strambaci, Cristiano Resmini, Alessandro De Antoni e Fabrizio Maniago, erano accusati di concorso in sequestro di persona. Gli agenti incaricati della sorveglianza erano, invece, accusati di omicidio colposo: Ivan Tikulin e Roberto Savron. Quest’ultimo e un altro collega (già uscito dal processo perché il pm non ne aveva impugnato l’assoluzione) non avevano optato per l’abbreviato e quindi la sentenza era stata di non luogo a procedere.
Soddisfazione per una sentenza che «accontenta tutti» è stata espressa dal pool difensivo formato dagli avvocati Giorgio Borean, Gianfranco Grisonich, Roberto Mantello, Paolo Pacileo e Guglielmo Guglielmi. Si attendono ora entro 45 giorni le motivazioni della sentenza: per alcuni capi di imputazione l’assoluzione è “perché il fatto non sussiste”, per altri “perché il fatto non costituisce reato”.
«Sono passati otto anni – si legge in una nota del Sap – perché si mettesse la parola fine a un incubo assurdo. Il Sap ha sempre riposto completa fiducia nella magistratura, ma nello stesso tempo mai ha avuto alcun dubbio sull’operato dei colleghi, vittime a loro volta di un meccanismo giudiziario e di un rebus di normative che evidentemente devono essere riviste. Hanno infatti agito con le stesse modalità da anni, per adempiere ai propri doveri, in un campo come quello dell’immigrazione, dove le normative, sono complesse, in alcuni casi del tutto lacunose, dove la prevista “espulsione” e l’effettivo rimpatrio è spesso impossibile da attuare. I colleghi hanno dovuto anticipare di tasca propria le spese legali, ma hanno anche visto le loro carriere bloccate».
Così il Coisp: «Finalmente è terminata una difficile fase umana per i nostri colleghi, per le famiglie e anche per noi che sinceramente ci stringiamo a loro e ai loro affetti. Oggi con il sorriso sulle labbra, pur sempre consapevoli del triste evento della morte della donna» . –
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