Trieste, amianto killer in Porto. Primo maxirisarcimento
L’Autorità portuale di Trieste è stata condannata a sborsare 645 mila euro per risarcire la famiglia di una vittima di amianto: Gino Gruber, nato nel ’44 e morto nel 2015 a 71 anni per mesotelioma. Lo ha stabilito il Giudice del lavoro del Tribunale di Trieste, che ha pronunciato una sentenza storica, destinata a fare giurisprudenza.
Per la prima volta nel capoluogo giuliano e la seconda in Italia (l’unico precedente riguarda Venezia), viene accertata infatti la responsabilità dell’allora Ente porto su un ex dipendente di una compagnia portuale. Finora era accaduto soltanto per chi in passato era stato al servizio diretto dell’Authority. Stando alle stime, il caso potrebbe fare ora da apripista per almeno un centinaio di vicende analoghe, vale a dire persone colpite dalla stessa patologia. E per chissà quante altre in futuro. L’incubazione, come noto, ha un periodo di almeno trent’anni.
Infatti il caso su cui si è appena espresso in primo grado il Tribunale di Trieste risale a parecchio tempo fa, tra il ’60 e il ’92, quando Gruber era socio-lavoratore della Compagnia portuale Terra, una cooperativa che forniva allo scalo manodopera in appalto. Circostanza vietata dalle norme del codice di navigazione, ma su cui vigeva una deroga.
Lui, come circa altri 2mila colleghi ignari della pericolosità dell’amianto, si occupava dello scarico del materiale delle navi provenienti dal Sudafrica. Dagli anni Sessanta fino al ’92 a Trieste sono approdate 600 mila tonnellate di amianto, usato soprattutto come isolamento nell’edilizia e nella cantieristica. Ogni grammo contiene 10 milioni di fibre. Tutto veniva maneggiato senza protezione alcuna. Niente maschere, niente tute speciali. Il materiale di solito era contenuto in sacchi di carta da 25 kg ciascuno che si rompevano frequentemente. D’altronde il trasporto dalle imbarcazioni alle banchine avveniva con le gru che imbragavano la merce a piramide, per poi essere smistata a bordo dei treni o negli hangar.
I racconti su cosa succedeva durante le operazioni hanno nutrito una folta letteratura giudiziaria: la polvere che fuoriusciva dagli imballaggi luccicava nell’aria, come neve a Natale. La respiravano tutti. L’inquinamento si riversava su qualsiasi altro prodotto accatastato nei magazzini. La polvere si puliva con la scopa, gli abiti con una spruzzata di aria compressa. Le fibre giravano ovunque.
Ma l’amianto non era considerato pericoloso dai tabellari Inail, anche se una lettera del 6 febbraio del ’78 (protocollo 1238) firmata dall’allora direttore dell’ufficio del lavoro portuale, Lorenzo Colautti, avvisava l'Associazione industriali, l'Unione spedizionieri internazionali, l'Unione agenti marittimi, l'Associazione armatori, la Camera di commercio e l'Ufficio di sanità marittima, della «ravvisata pericolosità che la manipolazione di detta merce poteva rappresentare».
Visto che, si legge oggi nel testo, «le fibre possono determinare, per inalazione, gravissime malattie polmonari individuabili, oltre che nell’asbestosi, nei tumori e soprattutto nei mesoteliomi della pleura». La lettera del direttore suggeriva quindi l’uso di imballi adeguati, con la copertura di plastica e l’impiego di container. Ma i lavoratori delle compagnie erano stati adeguatamente informati? E le misure di sicurezza? Nulle. I rischi, come visto, sono già noti quella volta. Ma ai portuali viene fatto bere il latte.
Gino Gruber inizia ad ammalarsi nel 2013, per un’attività in cui è stato impegnato fino a una ventina d’anni prima. Muore nel 2015. Agli eredi legittimi, cioè la moglie vedova, le due figlie e le due nipoti, la magistratura ha riconosciuto un risarcimento di 645.090,99 euro.
Gli altri ex dipendenti non si sono finora fatti avanti per chiedere giustizia perché la società, negli anni, è andata in liquidazione. Contro chi potevano rivalersi? Ma adesso la sentenza ha sparigliato le carte: grazie anche alla testimonianza di un ex dirigente della Cisl, Giuliano Veronese, il Tribunale ha accertato la responsabilità passiva dell’Ente porto (attuale Autorità portuale) per malattia professionale e morte di un socio lavoratore di una compagnia.
«Il pronunciamento - osserva l’avvocato della famiglia, Fulvio Vida - è basilare perché tutela le legittime aspettative dei partenti della persona deceduta».
Il provvedimento potrebbe innescare effetti a catena.
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