«Tre giudici sbagliarono i calcoli»: 136 mila euro a un operaio di Ronchi

Causa vinta da uomo rimasto senza un arto dopo un infortunio nel 2003. A pagare sarà Palazzo Chigi

Laura Borsani
Il palazzo di Giustizia di Trieste
Il palazzo di Giustizia di Trieste

La Presidenza del Consiglio dei Ministri dovrà pagare 136.000 euro di danni (oltre a quasi 26 mila euro di spese legali) ad un 49enne di Ronchi dei Legionari, Silvio P., che nel 2003, all’età di 27 anni, nell’ambito della sua mansione di operaio, aveva subito un grave infortunio sul lavoro, a causa del quale s’era resa necessaria l’amputazione di un braccio. Un caso sicuramente eclatante, considerato che il sostanzioso risarcimento è frutto della condanna civile di tre magistrati della Corte di Appello di Trieste. Ciò in applicazione della legge Vassalli, in ordine alla responsabilità delle toghe.

Battaglia ventennale

È questo l’epilogo di una ventennale battaglia giudiziaria condotta dall’uomo per il riconoscimento del cosiddetto “danno da lucro cessante”, ossia la perdita di guadagno per la mancanza di un arto e dunque per le limitazioni di impiego. Il ronchese si è affidato all’avvocato Alessandra Gracis, del Foro di Treviso, nell’intraprendere il lungo percorso giudiziario, avendo ottenuto solo la liquidazione del danno non patrimoniale. Il Tribunale di Gorizia, del resto, aveva pure riconosciuto il diritto all’indennizzo a carico delle aziende e delle assicurazioni chiamate in causa, già invece erogato dall’Inail l’importo circa l’invalidità stabilita al 50%.

Veduta esterna di Palazzo Chigi a Roma
Veduta esterna di Palazzo Chigi a Roma

I calcoli errati sul danno

Il “corto circuito” s’è presentato nella quantificazione del risarcimento derivabile dalle tabelle di riferimento, introdotte da un regio decreto del 1922. L’inghippo s’è verificato nella valutazione del coefficiente: il primo giudice aveva scambiato il dato di 18,377 con un importo di 18.377 lire. Da qui la conversione in 9,49 euro, che moltiplicata per lo stipendio dell’epoca e la percentuale di invalidità, ha presentato un “conto” di 70.846,975 euro. Cifra risultata più bassa di quanto versato dall’Inail, che in sottrazione è ha determinato un risultato negativo. A ruota, l’errore da parte della Corte di Appello di Trieste.

Grave errore del giudice

La Corte di Appello di Bologna, come si evince dalla sentenza a favore del ronchese depositata giovedì, ha osservato che «il giudice del lavoro è incorso in un grave errore, perché contrario alle basilari nozioni aritmetiche costituenti patrimonio comune e imprescindibile, nel ritenere che la tabella indicasse invece di coefficienti quali moltiplicatori da applicare ad una quantità data di cose/valori, una quantità in lire, da convertire poi in euro», rilevando «l’operazione matematica impossibile di moltiplicate una somma di denaro per un’altra, ossia una cosa per un’altra, e non per un certo numero di volte». A sbagliare quindi pure la Corte triestina, che a sua volta ha bocciato il ricorso promosso dal ronchese. I tre giudici dell’Appello, infatti, nel rifare i conti hanno utilizzato un coefficiente più che doppio di quello precedente arrivando ad una cifra di fatto uguale a quella precedente, ossia 70.086,47 euro. Peraltro è stato frainteso il senso del verdetto di Gorizia, considerando che il danno fosse già stato riconosciuto non avvedendosi invece che la domanda era stata di fatto rigettata. I magistrati di Bologna (in secondo grado) hanno così dato atto dell’«errore lampante e inescusabile» da parte dei giudici triestini, «frutto di una ingiustificata disattenta lettura tanto nella motivazione quanto del dispositivo della sentenza di primo grado, il cui contenuto era assolutamente chiaro».

I nuovi calcoli

L’avvocato Gracis, in aula, aveva fatto valere le cifre pertinenti del calcolo: 136.563,58 euro, più gli interessi per la responsabilità civile dei magistrati, più 1.951,50 euro di spese processuali e 24 mila euro per i compensi professionali. Palazzo Chigi potrà rivalersi parzialmente sui tre giudici, tutti comunque assicurati. L’avvocato Gracis ha osservato: «Quanto accaduto non si riverbererà sulle sorti dei loro patrimoni personali e della loro vita, cosa che invece sta accadendo al lavoratore». Lo Stato potrebbe comunque decidere di andare in Cassazione, visto che l’Avvocatura generale finora ha resistito in giudizio sostenendo che l’errore «non sussisteva e tantomeno era inescusabile». 

 

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