Tra i Paesi dell’Est scatta la corsa all’atomo: asse Serbia-Russia per un nuovo impianto
BELGRADO Non solo la Slovenia. Anche un Paese balcanico ancora fuori dalla Ue e tradizionalmente dipendente dal gas russo e dal carbone autoctono, mai entrato nel “club dell’atomo”, sta a sorpresa guardando al nucleare. Con sempre maggiore interesse. È la Serbia, dove da settimane tiene banco l’ipotetica e alquanto controversa questione di una centrale nucleare da costruire direttamente nel Paese. A tratteggiare l’inedito scenario è stato lo stesso presidente serbo, Aleksandar Vucic, che ha evocato la possibilità che Belgrado costruisca una piccola centrale nucleare modulare, nuova tecnologia relativamente più economica, che garantirebbe l’indipendenza energetica alla Serbia. Di questo la Serbia starebbe parlando attivamente con Rosatom, il colosso statale russo dell’energia atomica, ha aggiunto Vucic, richiamando per la prima volta nella storia lo scenario di una centrale nucleare in Serbia.
Le perplessità sono tuttavia tantissime e riguardano soprattutto i costi. A mettere le mani avanti è stato lo stesso leader serbo, che ha ammesso che «ci sono delle questioni relative al finanziamento» di un impianto del genere. I costi in effetti enormi. Si parla di circa dieci miliardi di euro, una cifra insostenibile per un Paese dove il governo, per legge, non può spendere troppo, portando il livello del debito pubblico sopra la soglia del 60% del pil. In ogni caso, il tema non è archiviato e la Serbia «sta discutendo con Rosatom sui prossimi passi» da compiere, ha detto Vucic, che in precedenza aveva messo sul tavolo l’idea della Serbia partecipante alla realizzazione della centrale nucleare magiara di Paks II, in fase di realizzazione sempre con l’aiuto di Mosca, per garantirsi una partnership nell’impianto. Da parte sua, il potentissimo direttore di Srbijagas, il gigante serbo del gas, Dusan Bajatovic, gli ha dato corda: «Dobbiamo avere la nostra centrale nucleare». Questo perché l’attuale crisi dell’energia non finirà a breve. Invece, «durerà a lungo, non sarà risolta in un mese o due e la Serbia non è immune», ha aggiunto.
Qualcosa, anche se non di esplosivo, si è mosso, in questo senso. Rosatom e Belgrado hanno infatti firmato un accordo che prevede, per il momento, la costruzione di un “Centro per la scienza e la tecnologia nucleare” (Cnst) nell’arco dei prossimi tre anni. Via libera al Centro, pensato soprattutto per le ricerche scientifiche e mediche, che rappresenta un passo «storico nelle relazioni tra Serbia e Russia», ha assicurato il ministro serbo per l’Innovazione, Nenad Popovic.
Ma non c’è solo la Serbia, a Est, a guardare al nucleare con interesse sempre maggiore, in quella che è anche una battaglia strategica tra Occidente da una parte, Russia e Cina dall’altra. A rivolgersi a Ovest è stata sicuramente la Romania, che nel 2020 ha deciso di voltare le spalle a Pechino – con cui aveva raggiunto precedenti accordi – per la realizzazione di due nuovi reattori alla centrale di Cernavoda. Romania che ha invece siglato una nuova intesa per la realizzazione di piccoli reattori modulari (small modular reactor, Smr) di produzione americana. Parliamo di una «cooperazione chiave», ha sottolineato il Dipartimento di Stato Usa, riferendosi al cambio di rotta di Bucarest.
Di nucleare si discute anche in Bulgaria, tra i quattro partiti di diversissima estrazione che compongono il nuovo governo, con posizione ancora inconciliabili sull’uso di reattori di produzione russa, già consegnati, per la centrale di Kozloduy. Partiti che stanno discutendo con asprezza se Sofia deve o meno continuare sulla via del nucleare. «Non possiamo rimanere senza energia dall’atomo», ha messo le mani avanti il partito “Continuiamo nel cambiamento”, vincitore alle urne e guidato dal neo-premier Kiril Petkov. Ma sono un po’ tutte le capitali dell’Est, da Bratislava a Varsavia, a guardare al nucleare, la via “verde” – secondo loro – per sottrarsi al giogo del carbone. —
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