Tonnellate di detriti e vetri infranti: l'Acquamarina di Trieste a un anno dal crollo
TRIESTE La rete metallica che delimita l’area oggi è sfondata. Qualcuno, forse vandali, l’ha abbattuta. È così da settimane, come a suggellare il primo segno di un nuovo monumento al degrado e all’abbandono. Acquamarina, un anno dopo. Era il 29 luglio del 2019, un lunedì, quando la città aveva rischiato una vera e propria strage. Molti ricorderanno quel giorno: i due boati, il polverone bianco che sia alza da Molo Fratelli Bandiera. Le sirene delle ambulanze, dei Vigili del Fuoco e delle forze dell’ordine.
Sono le tre del pomeriggio. I primi soccorritori si rendono subito conto dell’accaduto: è crollato l’intero tetto che sovrasta la piscina terapeutica. E si teme il dramma, perché quel posto ogni giorno è frequentato da decine di persone. Per fortuna, come si scoprirà nei minuti successivi, non ci sono vittime né ferite. Un miracolo davvero. Frutto di un caso: è lunedì, ma la piscina è chiusa dal sabato precedente per lavori di manutenzione sul tetto, proprio la parte collassata. I due operai della ditta veneta incaricata all’intervento riescono a mettersi in salvo fuggendo non appena si accorgono della copertura che inizia a piegarsi su se stessa. Così la ragazza del bar interno, i fisioterapisti e alcuni pazienti che si trovano in un’ala accanto alla piscina. Scappano tutti in tempo. Dentro restano le macerie. Tonnellate di detriti riversate sulla vasca sottostante: 500 metri quadrati di cemento, oltre alla cupola centrale di vetro e metallo.
Oggi, passando a lato della rete metallica sfondata, la realtà è ben evidente: quelle macerie sono rimaste tali e quali. A un anno di distanza nulla è cambiato. In tutti questi mesi è scattata un’inchiesta giudiziaria con 18 indagati, sono stati fatti sopralluoghi e perizie per capire cosa ha causato il crollo. E di chi sono le responsabilità. Nell’ultima udienza del 9 luglio, in tribunale, il giudice Massimo Tomassini ha deciso però che servono nuovi accertamenti tecnici per venirne a capo. Gli elementi fin qui raccolti dal perito incaricato dal gip, non sono stati ritenuti ancora sufficienti a delineare un quadro definitivo, soprattutto a fronte delle numerose contestazioni e osservazioni avanzate dalle parti in causa.
Al momento, stando ai primi risultati della perizia, sembra che il cedimento non sia imputabile all’intervento di manutenzione in atto il giorno del crollo, all’ossidazione dei bulloni o a mancanze nella manutenzione. L’origine del problema sarebbe piuttosto ascrivibile a un errore di calcolo in fase di progettazione. Ma, come detto, servono altri approfondimenti. La prossima udienza è fissata per il per il 16 settembre. E, inevitabilmente, slittano anche i tempi per il dissequestro. A quando? Non si sa. Difficile, quindi, che entro il 2020 inizi lo sgombero dei detriti. Intanto i triestini non hanno più una piscina terapeutica.
Oltre duemila persone che non sanno più dove andare, a cominciare dai disabili, o chiunque ha bisogno di cure e riabilitazione con l’acqua di mare riscaldata. O semplicemente chi ha piacere di nuotare in un posto così. Ma la struttura di Molo Fratelli Bandiera faceva anche da collante sociale, con i corsi pre-parto o l’acquagym, ad esempio. «Per Trieste questo è un grave disagio», osserva Federica Verin, volontaria e promotrice della raccolta firme, (a cui partecipano varie associazioni, a iniziare dall’Acquamarina onlus) per il ripristino di una struttura analoga e migliore. In questi mesi gli utenti hanno dovuto rinunciare a un luogo adatto, anche perché gli impianti natatori esistenti in zona sono rimasti chiusi a causa del Covid. «Da quanto risulta le strutture di Ancarano, della Pineta del Carso o l’ex “Capannina” di via Costalunga - spiega ancora la promotrice della raccolta firme - hanno sospeso le attività. E comunque non sarebbe la stessa cosa perché in quei posti l’acqua non è di mare e non è neppure riscaldata», rileva Verin. «Gli spazi, inoltre, non sono sufficienti».
Nemmeno l’Ospizio marino di Grado, comunque, sarebbe è una soluzione percorribile per la maggioranza dell’utenza: è troppo lontano da Trieste per chi ha bisogno di un utilizzo frequente. Insomma, ci sono persone che - come tanti disabili - per tutto questo anno sono state costrette a rinunciare alle cure. «Mio figlio ha una tetraparesi distonica, faceva un corso settimanale e aveva un suo istruttore. L’acqua gli dava molto beneficio», spiega la signora Fortuna Poggi, presidente dell’Acquamarina onlus e appartenente al direttivo dell’Aias (Associazione italiana assistenza spastici). «Avevamo pensato alla Bianchi, ma ci sono troppe barriere architettoniche». Manuele Fakin, 49 anni, disabile motorio, frequentava l’Acquamarina ogni giorno. «Ci sono andato fino a due giorni prima del crollo - ricorda - era l’unica struttura in cui potevo praticare attività fisica che mi dava benessere. Ora non c’è più niente di simile a Trieste. Non abbiamo nessuna possibilità». —
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