Tetti di cartone e letti nel fango: il ritorno dei profughi al Silos di Trieste

TRIESTE La puzza di bruciato arriva da un angolo in fondo. La sera prima hanno acceso il fuoco con qualche foglio di giornale e pezzi di legno presi qua e là dal cantiere delle ferrovia. Si sono scaldati, hanno mangiato riso insieme a una scatola di fagioli e una di tonno.
Aimal ha il volto ancora sfatto di sonno. Afghano, 23 anni, parla un po' di inglese. È qui a Trieste da settimane, ma gira l'Italia da tre anni. Non si sa come. Ha davanti un altro ragazzo avvolto in sacchi a pelo e coperte sudice, afghano pure lui. Lo scuote per svegliarlo. Lui si rigira dall'altra parte ridendo, parandosi gli occhi dalla luce del mattino con le mani. È sabato, quasi mezzogiorno. Ma qui al Silos sarà un'altra giornata senza orologio, senza tempo. La città degli invisibili è tornata a popolarsi silenziosa a un passo dalle Rive e da piazza Unità che a Pasqua si colora di turisti. E dal centro che si anima di campane a festa.
La città degli invisibili, con le sue baracche di cartone e asciugamani lerci a far da tende. Materassi nel fango. Pentole per cucinare e cucinare ancora pasti di fortuna. Mai lavate, piene di mosche. La città degli invisibili, lontana da tutto e tutti, che segna l'ennesima sconfitta di enti, istituzioni e di chiunque permetta ancora una volta questa umanità che vive nella sporcizia, tra insetti, escrementi e spazzatura. Perché se amministratori e associazioni umanitarie sanno, ne sono a conoscenza, vuol dire che accettano? Tollerano? E se invece non sanno, vuol dire che qualcosa sfugge al sistema dell'accoglienza? Un sistema che sembrava aver retto in tutti questi mesi. È un'emergenza? Guardando ai numeri evidentemente no: i profughi che in queste settimane bivaccano qui al Silos sono appena una quindicina, forse venti. Niente a che vendere con i quaranta, cinquanta e sessanta che uno e due anni fa si erano accampati in questi spazi. Ma sono solo i numeri a spiegare un'emergenza? Dice Aimal che non sanno dove dormire, che per loro non c'è posto. Non sanno nemmeno dove andare a mangiare. Ma che per fare la doccia, lui e gli altri compagni, vanno a chiedere aiuto all'Help center della Stazione, il centro aperto qualche tempo fa per aiutare i senzatetto.
Le capanne non sono tante. Non c'è il villaggio che si era formato all'epoca dei flussi incontrollati, in piena giunta Cosolini, quelli della rotta dei Balcani. Saranno quattro o cinque i rifugi che si sono costruiti. Ma le condizioni igieniche, adesso come allora, fanno rabbrividire. Aimal fa scendere il cappuccio della felpa fin sopra gli occhi. Piove, tira un po' di vento. Racconta in un inglese incerto che sopravvivono vivendo alla giornata, che qualcuno del gruppo si arrangia con un po' di spaccio, ci fa capire, tra piazza Libertà e via Ghega. Poca roba, pochi soldi, lascia intendere. Ha un paio di sandali ai piedi, indossa jeans. È il suo unico cambio. Ci mostra le capanne spostando con delicatezza le tende per non svegliare gli altri ragazzi che riposano dentro. «Vieni qua», continua avvicinandosi a un angolo di mattoni neri, bruciacchiati, dove la sera prima hanno cucinato il riso.
Per terra ci sono i piatti e le pentole che hanno preso pioggia. Altre capanne qua e là. Altre sagome intabarrate in coperte, stese per terra, nella polvere e nel fango. Qualcuno dorme all'aperto. Come quel giovane, lì sotto un'arcata di cemento. Non si è accorto di una pietra avvinghiata a un filo di ferro che penzola proprio sopra di lui. Qui, se accade qualcosa, se qualcuno si fa male, nessuno lo sa. Per mettere in piedi le capanne hanno usato legni, pannelli, cartone e le inferriate dei cantieri che si trovano nei paraggi. Hanno trovato il Silos con il passaparola. Sono entrati creandosi dei varchi nella rete metallica che circonda la struttura. D'altronde basterebbe anche soltanto scavalcarla. Farlo è davvero un gioco da ragazzi, anche perché nessuno controlla. Nessuno controlla nonostante il via vai sia chiaro. Un via vai, da queste parti, piuttosto evidente già con i gruppi di mendicanti rumeni e bulgari che affollavano la Stazione delle corriere fino a qualche giorno fa. Ed è evidente anche stavolta, con i profughi. Ma è la città degli invisibili, che forse Trieste preferisce non vedere.
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