Terranova all’attacco «Promuoviamo l’opera con un talent per tenori»
di Arianna Boria
TRIESTE
Domenica 29 dicembre, alle 16.30, sarà ospite a Domenica In. E parlerà di Trieste e del teatro Verdi, dove il 9 gennaio aprirà la stagione lirica con “Un ballo in maschera” nella parte di Riccardo.
Non si può proprio dire che Gialuca Terranova, il tenore che viene dal piano bar, sia uno snob. Anzi. Diventato celebre al grande pubblico come protagonista della fiction “Caruso” su RaiUno, ha fatto della visibilità televisiva il mezzo preferito per promuovere il suo grande amore, la lirica, patrimonio italiano in sofferenza, anche - a suo dire - per mancanza di una promozione strategica, in grado di attrarre pubblico e fare audience, con intelligneza imprenditoriale e senza snobismi.
Per Terranova “Un ballo in maschera” ha un significato speciale: è l’opera che l’ha lanciato. Così ce lo racconta.
«Era il 2007, avevo fatto cinque musical, quando ho capito che stavo sprecando la mia voce. Allora mi sono rimesso a studiare canto con Maria Cristina Orsolato e per un anno mi sono impegnato a fondo sulla tecnica. Maria Cristina è stata il mio anello di congiunzione con il mondo della lirica, mi ha insegnato a conoscere le mie corde vocali. Prima cantavo in modo un po’ falso, mi mancava il volume, la potenza, la sonorità. Nel 2008 ho debuttato a Düsseldorf con “Un ballo in maschera”, subito dopo c’è stato il Verdi di Trieste: la mia carriera è decollata. A cinque anni di distanza, questo è un ritorno gradito. Il sovrintendente Orazi voleva un “nome” e io, da allora, sono cresciuto, ho cantato in tutti i teatri italiani, e poi in Cina, in America, sono una presenza importante in Australia...».
. Lei, per dirla alla De Gregori, è stato “un pianista di piano bar”.Non ha cominciato in modo ortodosso...
«Mamma casalinga e papà piccolo imprenditore: non erano del mestiere, ma amavano la musica. A sei anni mi sono ritrovato in casa un pianoforte e ho cominciato a suonare fino al diploma al Conservatorio. “Voglio fare il musicista”, ho detto a mio padre e lui mi ha sempre appoggiato. Però dovevo anche guadagnare qualcosa e così ho cominciato con le serate nei ristoranti e nei locali, alternando jazz e piano bar. “Con ’sta voce perchè non studi canto?”, mi dicevano. In realtà volevo diventare jazzista, ma poi ho capito che dovevo portare al top la mia “italianità” e il mio dono naturale. Non è stato facile trovare il maestro giusto. Cantavo l’opera ma non ero pronto, non avevo la tecnica, facevo cose da provincia. Per questo ho finito col scegliere il musical».
Il mondo così “puntuto” della lirica non l’ha guardata con sospetto?
«Certo, venivo visto male perchè avevo fatto la musica leggera, le canzonette, il musical. E, più tardi, anche la fiction su Caruso. Mi guardavano come una specie di Claudio Villa che va a cantare Rigoletto all’Arena. Questo però è anche il motivo per cui la gente si è allontanata dalla lirica e l’ha lasciata in mano a una lobby di snob, di fanatici. L’opera deve tornare a essere “popolare”, che non significa “ignorante”. La Rai ha insegnato a parlare agli italiani, ma ora ha smesso di erudirli. Perchè non compra un format? Perchè non fa un talent di tenori invece di tutti quei pacchi? Perchè non “Un tenore in famiglia”? In Australia, 18 repliche della Traviata hanno fruttato 12 milioni e mezzo di dollari con 4 di spesa. È stato un grande spettacolo, con i fuochi d’artificio alla fine del brindisi e Violetta che cantava su un lampadario di Swarovski a venti metri da terra. Noi invece nella lirica investiamo soldi pubblici, i nostri, ma non facciamo business, abbiamo la strana idea che questi soldi non debbano dare profitto. Io vado a Domenica In e dico: andate all’opera. È una pillola, ma pur sempre promozione, perchè è un delitto che i teatri chiudano e si licenzi la gente».
Com’è stato l’incontro con Massimo Ranieri?
«Fenomenale. Studiavo in una saletta, in viale Somalia a Roma, e, a fianco, Ranieri faceva i provini. Si sono presentati in duemila per la parte del tenore che gli facesse da antagonista nel musical “Hollywood” con la regia di Patroni Griffi, c’era la fila fuori. Alla fine il pezzo l’avevo imparato anch’io e, un giorno, gli ho detto: “Mo’ te la canto io sta’ canzone». È rimasto a bocca aperta e mi ha lanciato la cuffia: “Ma non potevi dircelo prima che sai cantare?”. Io non volevo, mi pareva che il musical fosse un declassamento. Ma loro hanno insistito, mi hanno pregato di fare i primi tre mesi. È finita che sono rimasto tre anni per 350 repliche, siamo venuti anche al Rossetti di Trieste».
Dopo “Hollywood”, un altro musical, “Caruso”, che l’ha portata anche in tivù...
«Di ”Caruso”, con Katia Ricciarelli, abbiamo fatto 180 repliche, per lei un record. Katia è un grande soprano, che poi non ha più studiato, ma nella parte di Amelia in “Un ballo in maschera” resta la numero uno. La fiction? Ci pensavo, ci speravo, già dieci anni prima. Poi, quando ho saputo del progetto, mi dicevo: “Chissà chi sceglieranno?”. Invece Claudia Mori e il regista Stefano Reali si sono innamorati di me e mi hanno proprio imposto a Rai Fiction, che voleva un grande attore. “Caruso” ha avuto il record di ascolti 2012 e il premio per la miglior fiction, io il premio per il miglior attore di fiction...».
Perchè la tivù è un altro mestiere...
«Infatti, ma il regista ha avuto l’intelligenza di capire che potevo dargli tanto e ha saputo tirarlo fuori. Mentre giravo, però, cantavo “I Puritani” a teatro e studiavo “La damnation de Faust”, perchè non volevo creare un buco nella mia carriera...»
Il fatto di essere anche un bell’uomo però l’ha aiutata a spuntarla sull’attorone...
«La bellezza è essere credibili, è personalità. Caruso era tutt’altro che bello, ma le donne gli cadevano ai piedi. E Pavarotti? Di tanti tenori si vede solo che sono ciccioni, di lui mai: il suo carisma prevaleva su tutto».
Quando si è accorto che era “solo” un cantante di musical?
«Quando tiravo, tiravo e campavo di rendita sulla mia voce naturale. Così, a 36 anni, con moglie e tre figli, ho capito che dovevo rimettermi a studiare e non tradire la mia formazione classica. Ho puntato sulla qualità, in un momento in cui si sfornavano tanti tenori pop, e ho avuto ragione. La mia carriera si è impennata, ho girato il mondo, ho cantato al Sanremo di Bonolis, nel 2009, con Dimitra Theodossiou. E ho avuto la fortuna di crescere, di elevarmi, lavorando con grandi direttori. Per questo sono contento di cantare, qui al “Verdi” di Trieste, con la direzione del maestro Gelmetti».
Ha mai avuto paura di non farcela?
«Non credevo di farcela, speravo solo in qualche lavoro per mantenere la famiglia. Ho fatto un salto nel vuoto, in un momento della vita in cui si cominciano già a tirare le somme. È stato gratificante quando mister Antonio Pappano mi ha detto: “Ho visto il film, ma non credevo che in teatro avessi quella tecnica”.
E paura di “bruciarsi” in televisione?
«No, questo non è il momento in cui l’opera può permettersi di essere snob. Serve una mentalità imprenditoriale per vendere un prodotto e portare la gente a teatro. Bisogna smettere di pensare che cultura e business siano due parole da non accostare. Poi succede che alla prima della Scala va la gente che paga duemila euro di biglietto e pensa che la Tosca sia di Verdi: guardate il video su youtube...».
Nel tempo libero che musica ascolta?
«Le opere che canto. Un’overdose, in tutte le versioni, per maturarle e capire dove si sono spinti gli altri tenori e dove posso spingermi io. Con i miei figli, in auto, ascolto Eminem, che ha testi interessantissimi. Sono cresciuto con Peter Gabriel, mi piace il grande jazz di Pat Metheny e il piano di Rita Marcotulli, quel tipo di “fusion”».
I suoi figli seguiranno le sue orme?
«Tutti e tre vogliono fare il mio mestiere. Sono cresciuti in teatro, per loro la normalità è quella. Io quando canto sono egoista, ma per il resto vado a prenderli a scuola, cucino, dimostro che si può fare una vita normale pur da artista. Certo, loro avranno più chance di me, del ragazzo della Garbatella».
Lei aprirà una stagione lirica mesta, tra tagli e incertezze...
«Ai tempi di Verdi se un’opera “tirava” si andava avanti, altrimenti chiudeva. Vengo dal teatro privato e so come fare perchè uno spettacolo attragga gente, a cominciare dai manifesti per finire con l’organizzazione del teatro. In Australia la gente si sentiva cretina se non veniva a vedere Traviata, lo spettacolo e il marketing erano grandiosi. Ma bisogna rischiare tutti, nessuna garanzia a priori. Abbiamo un patrimonio culturale enorme, sfruttiamolo in chiave turistica. Com’è possibile che, con tutta la gente che visita Firenze e vuol vedere l’opera, il Maggio Musicale chiuda? Facciamo spettacoli per le scuole a 10 euro, riempiamo i teatri. Promuoviamo la lirica in tivù e non alle 2 di notte...».
Farebbe un’altra fiction?
«Subito, ma con un comico accanto. Una storia da ridere, brillante, che faccia conoscere a tutti che realtà meravigliosa è l’opera. Non una roba da vecchi, finita, ma il nostro futuro».
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