Tangenti in Cina, altra bufera su Clini
La Cina, oggi, ci è un po’ più vicina. Ma, in questo caso, non per cose di cui poter andar fieri, benché siano contenute per il momento in un’indagine, e non già in un’eventuale sentenza. Da quanto sta venendo a galla dal fascicolo aperto da tempo dalla Procura di Ferrara - che dirige una complessa inchiesta delle Fiamme gialle sul suo conto per effetto della quale, peraltro, lui stesso ha passato quest’estate un mese e mezzo ai domiciliari - l’ex ministro triestino acquisito Corrado Clini sarebbe stato capace di dirottare, negli anni in cui fu potente manager del Dicastero dell’Ambiente prima di diventarne appunto il ministro, 200 milioni di fondi statali proprio in Cina. Destinazione: due uffici-fantasma a Pechino per appalti pilotati, se non proprio totalmente posticci, che avrebbero consentito alla presunta «associazione a delinquere finalizzata alla corruzione» a lui riferibile d’intascare tangenti del 10% su ogni commessa attraverso depositi su conti esteri.
Sono nuovi scenari pesantissimi, insomma, quelli ricostruiti dagli investigatori del Reparto spesa pubblica della Guardia di finanza nazionale nel filone d’indagine che sviscera i supposti “interessi” specifici in Cina di un uomo del potere romano che ha legato il suo nome alla nostra città - oltre che per avervi stabilito la sua seconda casa in una prestigiosa villa di Duino con la compagna triestina Martina Hauser, e per esser stato per un periodo anche presidente dell’Area di ricerca - per aver messo la firma, sotto forma di ultima parola, su almeno due delle partite più delicate per questo territor
io: Clini, in effetti, da ministro dell’Ambiente “in casa”, nel 2012 ha sbloccato l’impasse dell’Accordo di programma sulle bonifiche in area Ezit (che a diverse imprese continua però a non piacere, al punto che pendono ricorsi al Tribunale amministrativo regionale) e nel 2013 ha sospeso la compatibilità ambientale del progetto del rigassificatore di Zaule, subordinandone la riefficacia dopo sei mesi a condizioni (la presentazione di un sito alternativo e la revisione del Piano regolatore portuale) rimaste in sostanza senza un seguito.
Ma, alle spalle di questo Clini in versione pubblica e triestina, le carte frutto del lavoro della Guardia di finanza - come si legge in un articolo pubblicato ieri dal Corriere della Sera - dipingono tutta un’altra faccia. Dopo la storia dei quasi tre milioni e mezzo “distratti” tra il 2007 e il 2011 con l’ingegnere di Padova Augusto Calore Pretner, considerato suo socio occulto, dai 54 milioni di fondi destinati a nuovi impianti idrici in Iraq - storia che a fine maggio l’aveva già visto come si diceva finire ai domiciliari (non a Duino) per peculato - ecco ora nuovi stralci dell’inchiesta che investe lui, lo stesso Pretner e, tra gli altri, pure Martina Hauser.
Secondo le ricostruzioni delle Fiamme gialle, Clini avrebbe gestito l’affare-Cina tra il 2001 e il 2009 - ben prima dunque di diventare ministro, quando invece ricopriva incarichi di vertice da direttore generale con determinate deleghe (tra cui lo Sviluppo sostenibile) - in modo che il Dicastero dell’Ambiente “investisse” fiumi di denaro nel Paese più grande e più in crescita, economicamente parlando, del mondo. In particolare: 200 milioni sarebbero stati impiegati per lavori commissionati con lo strumento della trattativa privata, senza cioè passare per una gara pubblica, con un ruolo-chiave di “intermediario” affidato all’ufficio di Pechino dell’Ice, l’Istituto per il commercio con l’estero presieduto fino al 2011 dall’ex ambasciatore Umberto Vattani. Quest’ultimo costiuisce, pur più alla lontana, un ulteriore aggancio con Trieste: Vattani, dieci anni fa, fu infatti in prima linea nella volata finale della candidatura della nostra città all’Expo 2008 (che poi sappiamo come finì a dicembre a Parigi) in quanto, all’epoca, era il segertario generale della Farnesina. Per l’Ice Pechino - per gli investigatori delle Fiamme gialle - passava ad esempio la verifica della disponibilità, da parte di un’impresa interessata a ottenere un certo appalto senza gara, a «versare un contributo del 10% del valore dell’appalto su un conto presumibilmente intestato a una non meglio identificata società di conselenza con sede a Hong Kong». Sette in tutto le imprese cui sono stati commissionati lavori in questa maniera, i cui iter venivano “seguiti” da un paio di uffici creati dal ministero a Pechino, uno dei quali all’interno della sede Ice, ma - alla prova delle indagini - dalle non ben precisate attività e struttura. Tra le opere citate nell’inchiesta figurano il restauro da quattro milioni della «Meng Joss House», ora inagibile per infiltrazioni d’acqua, e la costruzione da 20 milioni di un edificio dentro il comprensorio universitario di Pechino, per la qualità della quale poi i responsabili dell’ateneo hanno protestato con l’Ambasciata italiana.
@PierRaub
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