«Tagliare cardiochirurgia? Senza senso»
L’ex presidente della società italiana: i tempi d’attesa salirebbero ancora
«Troppe due cardiochirurgie in Friuli Venezia Giulia? E allora cosa dovremmo fare noi in Lombardia, che con 9 milioni di abitanti ne abbiamo 20?». Ettore Vitali, cardiochirurgo di fama e fino al dicembre scorso presidente della Società italiana di cardiochirurgia, sembra tentato di archiviare così, con una battuta, la strana tentazione della giunta regionale di «razionalizzare» il settore, arrivando, manco a farlo apposta, alla solita dicotomia Udine-Trieste, al mors tua vita mea delle sale operatorie: un’ipotesi contenuta nel «Libro verde sul futuro del sistema sanitario regionale». Poi però ci ripensa perché il problema reale, assicura, «è un altro».
Quale?
Quello di azzerare le liste d’attesa che da quanto ne so da voi sono ancora pesanti. In tale ottica chiudere una cardiochirurgia non avrebbe senso, perché allora per ridurre i tempi d’attesa bisognerebbe raddoppiare quell’altra. E inoltre...
Inoltre?
Bisogna vedere cosa c’è dietro alla volontà riformista. Se partiamo dalla centralità del paziente, allora l’unica cosa che conta è che bisogna azzerare le liste d’attesa. Se invece si punta, diciamo così, alla centralità della gestione economico-organizzativa si potrebbe pensare ai tagli, ma in questo caso... aumenteranno le liste d’attesa!
Allora sarebbe una scelta che va contro il paziente?
Non ho detto questo. Io sostengo solo che gli sforzi della Regione devono puntare ad annullare le attese. E comunque entrambi i poli cardiochirurgici che avete sono di eccellente qualità e con dei numeri che ne giustificano l’esistenza, quindi è opportuno che ci siano, assolutamente.
La Regione però insiste sulla consistenza numerica della popolazione...
Basta guardarsi attorno. In Sardegna credo che gli abitanti siano come i vostri o addirittura meno e ci sono due poli cardiochirurgici, a Cagliari e a Sassari. L’Umbria, con mezzo milione di abitanti, ne ha uno. Cosa facciamo, allora, chiudiamo quello lì e magari anche dieci in Lombardia? Non credo sia questa la «mission» di chi ci governa...
Ma qual è, allora o, meglio, quale dovrebbe essere?
Prima di tutto bisogna garantire la risposta alla domanda di salute. È la nostra missione, come medici, ma deve essere anche quella del governo. Raggiunto questo obiettivo, ma solo allora, si può anche pensare a razionalizzare. Per dire: Udine rappresenta l’eccellenza in regione nel polo trapianti e dunque criminale, semmai, sarebbe pensare di farne un altro. Ma pure Trieste ha un suo ruolo importante e non si può minimizzare neanche quello.
Sembra di capire che l’equazione è più centri uguale migliori e più tempestive cure?
Assolutamente, ma precisiamolo bene, qui i campanilismi non c’entrano. Non sono favorevole, per capirsi, a una cardiochirurgia in ogni paese. Ricordo ancora quando da giovane, al «Niguarda» di Milano distribuivo bigliettini ai malati per dar loro delle alternative, ché diversamente avrebbero dovuto aspettare dei mesi... Venivano anche da voi, nella vostra regione.
Ma in Lombardia come avete risolto il problema delle liste d’attesa?
Da noi semplicemente hanno accreditato delle strutture private che non fanno parte del servizio sanitario nazionale, come il San Raffaele, l’Humanitas, il Cardiologico Monzino. Centri all’avanguardia, che non offrono niente di meno rispetto al servizio pubblico. E poi, comunque, il malato segue una logica che non è necessariamente quella degli amministratori...
In che senso?
Nel senso che i pazienti vanno dove vogliono e dove si fidano, non badano alle ripartizioni territoriali.
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