Sudafrica, sotto il mare di Gansbaai faccia a faccia con il grande squalo bianco

Un inviato de "Il Piccolo", Pietro Spirito, ha realizzato un eccezionale reportage sul grande squalo bianco a Gansbaai, sulla punta estrema del Sudafrica. Spirito, insieme ad un gruppo di ricercatori italiani - tra cui una biologa triestina -, si è così immerso nelle acque di Gansbaai protetto da una gabbia metallica. Ecco il racconto del suo affascinante "face to face" con il re degli oceani

CAPE TOWN. Lo squalo compare all'improvviso dall'orizzonte scuro del mare profondo, si avvicina alla gabbia inseguendo l’esca lanciata dalla barca e con uno scatto si volta e morde la griglia d’acciaio che ci protegge in immersione. Il rumore dei denti sul metallo dà la misura della potenza di quel morso, e lascia solo intuire cosa potrebbe succedere se tra me e le mascelle spalancate ed estroflesse a un centimetro dal mio naso non ci fosse una sicura barriera protettiva.

Eccolo il predatore perfetto, il grande squalo bianco, Carcharodon carcharias, il più pericoloso e imprevedibile pesce cacciatore del nostro pianeta, saldamente piazzato al vertice della catena alimentare marina da almeno 11 milioni di anni e in epoca contemporanea reso sinistramente famoso dal film di Spielberg "Jaws".

Eccolo qui il simbolo vivente del male così come la cultura occidentale lo ha tramandato, l’animale che più di altri si è stabilizzato nell’immaginario collettivo quale incarnazione della furia cieca del destino, degli dei, del caso, chiamatela come vi pare ma sempre una punizione divina per le nostre cattive coscienze.

Ce l’ho davanti a fauci spalancate il grande squalo bianco, avrà quattro metri di lunghezza, sta sbatacchiando la gabbia in cui galleggio senza più equilibrio come se fossi nel cestello di una lavatrice in centrifuga, e la sua espressione è senza dubbio quella di un animale che non le manda a dire. Ha afferrato l’esca, lotta per staccarla dalla cima accanto alla gabbia, la tiene tra le fauci e la strattona dando potenti colpi di coda al mio rifugio fatto di sbarre sottili.

Alla fine ci riesce: trancia la fune dell’esca e si allontana con il prelibato boccone nel buio da cui è apparso. Passano pochi secondi ed ecco un’altra sagoma prendere forma nell’acqua. Arriva cauto in perlustrazione a vedere cosa offre il menu del giorno, e si avvicina con l’espressione impassibile di chi da millenni impersona il terrore.

Mi trovo a tu per tu con il predatore assoluto dei mari e degli oceani, ma tutto ciò che vedo e provo è solo un compendio di apparenze. Scoprirò presto che le cose non sono come sembrano, e che l’immagine tramandata del killer cieco e spietato è una bufala. Peggio: è un alibi - uno dei tanti - escogitati dall’umana specie nei secoli dei secoli per giustificare i suoi massacri: uccidi quello che non conosci.

In questo viaggio in uno dei santuari della più selvaggia natura scoprirò che il grande squalo bianco è stato troppo a lungo più preda che predatore, che dalle sue fauci dipende l’intero ecosistema del mare, che noi abbiamo bisogno di lui più di quanto lui abbia fame di noi, che è un animale complesso, affascinante, ancora in gran parte misterioso, giustamente protetto e che non è nè buono nè cattivo ma, semplicemente, come tutti gli altri esseri viventi a eccezione dell’uomo ha una sola missione da compiere: sopravvivere.

Lo squalo bianco che adesso si allontana dalla gabbia in cui sono immerso non è solo: almeno altri tre esemplari fra i due e i tre metri di lunghezza girano intorno al ”Barracuda”, la barca dello Shark Diving Unlimited di Michael Rutzen, uno dei pochi uomini in grado di immergersi con gli squali bianchi in free diving, senza alcuna protezione, non per amore del brivido ma per conoscere meglio abitudini e comportamenti di questi animali.

Mi trovo a Gansbaai, nella punta estrema del Sudafrica, per la precisione nel canale che separa gli isolotti di Dyer Island e Geyser Rock, abitati rispettivamente da 20mila cormorani il primo e 60mila chiassosi leoni marini il secondo. Qui si incontrano in tumultuoso abbraccio le acque dell’Oceano Indiano e quelle dell’Atlantico, provocando un’esplosione di biodiversità tra le più ricche al mondo.

Questo è il punto esatto dove si registra la maggiore concentrazione di grandi squali bianchi del pianeta, più della California e dell’Australia, uno specchio d’acqua agitato dalle alte onde oceaniche dove è decisamente sconsigliato fare il bagno. Anche perché è proibito: Dyer Island e Geyser Rock sono riserva naturale protetta, così come sono protetti gli squali bianchi.

Le autorità sudafricane sono molto severe verso i trasgressori e la pratica del cage diving, l’osservazione in gabbia degli squali, è rigidamente regolamentata.
A bordo del ”Barracuda” ci sono i componenti della spedizione scientifica italiana organizzata dall’associazione no-profit Posidonia di Massa Marittima e capitanata da Primo Micarelli, 46 anni, biologo marino e docente di acquariologia all’Università di Siena, che da sette anni vola in Sudafrica all’inizio della stagione fredda per studiare biologia ed ecologia dei grandi squali bianchi.

Il suo staff, che annovera fra gli altri etologi, biologi, fotocineoperatori subacquei, anche triestini, è l’unico gruppo italiano a svolgere ricerca diretta sul campo dando un contributo fondamentale alla conoscenza del predatore perfetto. Al termine della spedizione 2010 il bottino di dati raccolti sarà cospicuo: 53 grandi squali bianchi (dai due ai cinque metri di lunghezza) catalogati e studiati (da aggiungere agli altri 193 esemplari identificati nelle precedenti spedizioni), 60 schede di rilevamento, 180 moduli di analisi relativi al comportamento e alle scelte alimentari, 12 ore di immersione in gabbia e 20 ore di osservazione in superficie utilizzando sei sagome di richiamo a forma di cucciolo di leone marino, quattro delle quali perdute tra le fauci di soggetti poco collaborativi.

A supportare lo staff di Micarelli nelle osservazioni e nella raccolta dei dati un gruppo di studenti laureandi in discipline scientifiche e alcuni volontari, tutti motivati dall’idea di fare per lo squalo bianco ciò che è stato fatto - ad esempio - per il lupo in Italia: smantellare una cattiva mitologia e accrescere conoscenza e rispetto per un animale dal quale dipendono delicati equilibri naturali, più che mai compromessi dall’uomo. La marea nera che ha invaso il Golfo del Messico costerà molto alla fauna oceanica, squali bianchi compresi.

Eppure è proprio qui, nelle fredde acque sudafricane che bagnano la costa di Gansbaai, che è nata in epoca moderna l’immagine diffusa nella cultura occidentale che lega ataviche umane paure allo squalo bianco, in una linea che conduce fino al mostro marino del film di Spielberg.

La notte del 23 febbraio 1852 la fregata inglese Birkenhead in viaggio da Portsmouth naufragò urtando gli scogli affioranti di Danger Point con a bordo oltre seicento fra donne, bambini e soldati del 73.o Reggimento di fanteria. Siccome non c’erano scialuppe sufficienti per tutti, il capitano Robert Salmon ordinò che lasciassero la nave prima le donne e i bambini, secondo una formula che da allora è stata codificata nelle regole dalla marineria mondiale, mentre i soldati avrebbero tentato di raggiungere a nuoto la costa.

Ciò che accadde in seguito - l’attacco degli squali bianchi nella notte - è rimasto nei racconti orali e scritti dei 193 sopravissuti come il massimo dell’orrore immaginabile quando si evoca il nome del grande bianco. Una fama che il Carcharadon carcharias avrebbe pagato a caro prezzo negli anni a venire ma che, come vedremo, è piuttosto lontana dalla più complessa realtà del predatore perfetto.
(1- continua)

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