Suban taglia un altro traguardo: 150 anni di triestinità a tavola

Dire che sia nato per scommessa non è un azzardo. Giovanni Suban iniziò la sua attività nel 1865 proprio grazie a una maxi-vincita realizzata alla Lotteria di Vienna. Quel terreno di San Giovanni, all’epoca più paese fuori porta che rione, lo attirava da tempo e quel colpo di fortuna gli permise di realizzare il suo sogno: una trattoria con annessi pastini coltivati a uva e altro.
Centocinquanta anni dopo la sua famiglia è ancora lì, e si laurea come attività di ristorazione più antica di Trieste. Con l’attuale gestore (si fa per dire, Mario lavora lì dentro da più di 60 anni) a proporre pervicacemente, e con successo, la jota, la tagliata di black bull o i polletti disossati. Sempre e comunque cucina ruspante e del territorio, vera ambasciata della triestinità a tavola.
Storia interessante, quella dei Suban. Dopo Giovanni, il figlio Francesco porta avanti quello che ormai è uno stile culinario fino alla Prima guerra mondiale, poi è la volta di Vladimiro, padre di Mario. Ed è con lui che parte il salto di qualità. La moglie Antonia ha frequentato scuole di cucina in Austria, ci sono un po’ di scintille su chi fa cosa e come ma poi il ristorante decolla. E non ha mai smesso di crescere.
Mario si ritrova tra i fornelli suo malgrado. Grande amante e praticante di vari sport, all’inizio si divide tra i campi da gioco e la cucina, poi si arrende. Non erano, quelli, tempi in cui si poteva discutere con i genitori. Una scelta forzata ma, a posteriori, vincente. Curioso e amante delle innovazioni gastronomiche, si scopre anche dj ante litteram nel periodo del Gma, quando gli americani (e i reduci della Seconda guerra mondiale) volevano musica ovunque. A San Giovanni, dunque, drink, stuzzichini e Glenn Miller.
Arriviamo ai magici anni ’60. Mario è sempre in movimento. Studia, in particolare, il mondo enogastronomico tra Piemonte e Lombardia, da dove trae infiniti spunti ai fini della gestione del locale e del servizio, che in effetti da sempre è un’oasi di bon ton e buone maniere rispetto alla media locale. Il successo è crescente. È lui a introdurre il “padellato” e, negli anni ’70, quelle che facendo riferimento a un piatto tradizionale, le palacinche “alla mandriera” diventeranno poi le iperclassiche crespelle al basilico. Nate anche perchè, va ricordato, nell’orto originario dietro al locale c’era una coltivazione di basilico particolarmente abbondante.
Suban è ormai lanciato e la curiosità non lo abbandona mai. Si butta dunque, senza pensarci un attimo in esperienze all’estero. Nel ’76 è in India al mitico albergo Taj Mahal dove resiste tuttora in menu il cannellone “alla Suban”. Poi, con la cortina di ferro ancora ben salda, apre rapporti con l’Ungheria che porteranno negli anni a venire a continui interscambi con quel paese e a “serate” indimenticabili. Pare, anzi, che un’icona del cinema come Kathleen Turner, a Trieste con Sting per girare un film, abbia pagato un pegno sostanzioso al gradevole (ma traditore...) “Barack Palinka”, liquorino fresco ma ad alta gradazione... A seguire Suban è a Parigi per “Trouver Trieste”, negli Emirati Arabi (dove riesce a fare la jota con carne di pecora e non di maiale, sennò rischiava grosso...) a Vienna e al “Rex” di Los Angeles.
La sua fama lo precede. Giovanni Paolo II, a Trieste nel ’92, non può che affidare a lui la cena nel convento delle monache di clausura, e così fanno presidenti come Cossiga, Scalfaro, Napolitano. E ancora: personaggi dello sport come Fabio Capello, cliente abituale, che proprio nel suo locale riceve lo “Stinco d’0ro” mentre il boss della F1, Bernie Ecclestone, mangia in un mini-tavolino con moglie e figlia pur di poter gustare le sue delizie e, nello spettacolo, Domenico Modugno e Gigi Proietti fanno del locale di via Comici quasi un’appendice del “Rossetti”.
Mario di anni ne fa 80 a giugno, mentre il locale in questo 2015 ne festeggia 150. Ma lui e la figlia Federica che lo affianca da anni, non credono ci siano segreti dietro al loro inscalfibile successo. «Bisogna istruire chi lavora in sala ma anche educare il pubblico al consumo - racconta la stessa Federica - essere sempre professionali e non scadere mai nella ricerca della materia prima». Tra i tanti possibili, un dogma. La dinastia è salva.
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