Strategie del Pd
Dopo le elezioni di aprile il centrosinistra formulò un pronostico sul nuovo governo Berlusconi. La poderosa affermazione della Lega e il successo di Alemanno al Comune di Roma gli fece prevedere che Berlusconi e il Pdl sarebbero stati chiusi in una morsa. Una morsa con le due ganasce costituite appunto dai più vittoriosi, cioè la Lega e l’ex-componente di An.
Poco dopo disse ancor di peggio: che c’erano già profonde fessure all’interno del Pdl e della stessa compagine di governo. A giudicare dalle ultime vicende in casa Pd si direbbe invece che il centrosinistra stava facendo il pronostico su se stesso. Dentro il Pd oggi la componente cattolica è assai in fibrillazione, D’Alema con la sua fondazione va per la sua strada (abbracciando estremismi che si sarebbe preferito vedere consegnati al passato) e da ultimo Veltroni ha parlato apertamente di scissione. Per altro verso il Pd, e Veltroni in particolare, ha dato da tempo fiato a quelle trombe che hanno suonato la musica delle larghe intese, del dialogo e via di questo passo.
Qualcuno si era anche illuso che ciò potesse aprire una stagione nuova per la politica italiana: non voglio dire di modernizzazione, ma quanto meno di svecchiamento di tutto il decrepito che c’è nel sistema di decisione politica in Italia; fra questi possiamo annoverare Napolitano, anche il papa. Purtroppo si è capito che, come dicono gli americani, si è trattato semplicemente di window dressing, ovvero di un abbellimento di facciata ma nulla più.
Le occasioni per dimostrare che il dialogo, la ricerca di soluzioni condivise, diventava la strada maestra non sono mancate e lo stesso Presidente della Repubblica si è affrettato a presentarle come tali: fra le principali il decreto sui rifiuti in Campania e il prossimo disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche. Ma la risposta del Pd non è venuta nei modi in cui era stata preannunciata. In queste vicende il Pd lo si è visto allineato sulle posizioni di Di Pietro, il quale su Berlusconi ha sparato ad alzo zero portandosi dietro (o forse è il contrario) il partito dei giudici, che ora pretenderebbe di emettere un giudizio preventivo di costituzionalità sui provvedimenti che il governo intende portare in Parlamento.
Andando avanti di questo passo capiterà che la magistratura si sentirà legittimata a intervenire, per esempio, sul fatto che un sindaco voglia spostare un cassonetto delle immondizie 50 metri più avanti. Ora che Di Pietro intenda così la propria missione, affari suoi. Che voglia trasformare il proprio partito, l’Idv, in Idm (ovvero l’Italia dei magistrati), sono anche affari suoi (no, magari questi sono affari nostri). Ma ciò che è di gran lunga più preoccupante è il fatto che Di Pietro diventi il leader del centrosinistra nella sua accezione più ampia (mettendovi cioè dentro anche quelle componenti che oggi non sono rappresentate in Parlamento).
Ora, già in passato ci fu il rischio che l’allora Pci si trasformasse in quello che si definì come un partito radicale di massa, cioè un partito incline ad abbracciare la protesta e stop, anzi tutte le proteste possibili. Però il rischio è stato evitato: mai il Pci rinunciò a far politica, intesa nel senso di azione volta a portare a casa risultati, anche se spesso attraverso un’esperienza poco raccomandabile, il consociativismo.
Tornando alle prospettive che si aprono per il Pd, una scissione sarebbe sicuramente una iattura per tutti. Ma assai peggio sarebbe se il Pd diventasse il partito di Di Pietro. Al peggio non c’è mai fine, dice all’incirca un proverbio. Speriamo che questo peggio ci venga risparmiato: per fortuna, le possibilità per tenerlo lontano ancora ci sono. Ma bisogna coglierle. Forza, signori (anzi, amici e compagni).
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