Storia di Amélie e della casa che racconta tutta una vita

Con ”Rêverie”, la studentessa triestina Alisei Apollonio ha conquistato la giuria del Premio veneziano
Si intitola ”Rêverie” il racconto con cui la triestina Alisei Apollonio ha vinto il Campiello Giovani 2009. Pubblichiamo l’inizio per gentile concessione della Fondazione Campiello e della casa editrice Marsilio.


di
ALISEI APOLLONIO



“Sono appassita come un fiore, mi sono inaridita come l’erba dei campi” ed acqua, sì, ho visto scorrere molta acqua sotto i miei ponti, forse troppa».

Il mobile della cucina era lì, dopo tanti anni, ma le mani che lo sfioravano erano mutate e, sebbene la pelle apparisse ancora elastica, si era fatta più sottile e le vene azzurrine ben visibili sottolineavano la fragilità di quelle lunghe dita.


Nella sua carezza, la donna partì dai fornelli, svoltò l’angolo dove un tempo era stato il microonde, per arrivare all’assetato acciaio dei due lavelli, i quali non udivano il gorgoglio dell’acqua ormai da tempo.

Si trovò, quasi sorpresa, di fronte alla porta-finestra che si affacciava sul giardino, fece scorrere la mano sulla vernice bianca ormai scrostata, tastandone le ferite con tenerezza e dolore, quindi posò la mano sulla maniglia e premette verso il basso con decisione, per aprirla. Ma non ci riuscì, il meccanismo era troppo duro per esser rimasto in disuso tanto tempo.


«Madame, lasci, l’aiuto io». Il giovane uomo tirò con la forza dei trent’anni e l’imposta finalmente si schiuse. Un’impertinente folata di frizzante brezza primaverile investì l’anziana signora, trasportando con sé le foglie avvizzite, che l’autunno e poi l’inverno avevano strappato crudeli alle braccia nude degli alberi ed avevano, poi, ammonticchiato là, in quell’angolo nascosto di cortile, nell’attesa che qualcuno aprisse loro, dense di ricordi, la strada.


Le foglie scavalcarono l’uscio rincorrendosi e si adagiarono con grazia sul pavimento di pietra grigia.

«Santo cielo! Sono mortificato... non avrei dovuto spalancare la porta così all’improvviso!», l’agente immobiliare iniziò ad agitarsi, tentando di cacciare le foglie secche in giardino, con i piedi.

La donna non fu capace di trattenere una risata che, anche a quell’età, non aveva perso la sua eleganza e sgorgava limpida, come il chiaro suono di campanelle d’argento.

«Non si dia tanta pena, suvvia. Creano un piacevole effetto sottobosco in questa cucina tanto grigia, non trova?».


L’uomo la guardò meravigliato, e le sorrise compiacente, ma lei già non ascoltava, gli occhi della sua mente non vedevano più le crepe dei muri e le chiazze di umidità, né la ragnatela del paziente ragno sospesa sopra la sua testa; già fissavano altri mondi, altri tempi.

Il termosifone bruciava oltre la maglietta in cotone di Amélie, l’aria era densa ed odorava di cipolla soffritta e pomodoro.


«Non sarebbe una buona idea aprire la finestra, Jean?».

Il ragazzo che mescolava la salsa con ostinazione appoggiò il mestolo di legno al bordo della padella ed aprì la porta affacciata sul giardino.

All’interno della stanza s’insinuò una raffica dell’aspro vento autunnale, il quale sospingeva innanzi un turbinio di erba e foglie appena sottratte ai cespugli vicini e fece traballare la vivace fiamma blu del fornello.

«Che disastro! Avrei dovuto immaginarlo!», Jean iniziò ad affannarsi alla ricerca di una scopa, mentre l’acqua per la pasta traboccava dalla pentola, formando una schiuma lattiginosa.

La ragazza non trattenne una risata, adamantina come una sorgente montana, ed elegante, malgrado la sua giovane età. E, mentre rideva, soffiava, per far calare il bollore dell’acqua e, tra un soffio e l’altro, si voltava per osservare divertita l’amico, il quale, invano, tentava d’insegnar la disciplina al vento.


«È una battaglia persa, Jean! Chiudi la porta: ci penserai più tardi. E poi, non credi che, così, ora in cucina regni un gradevole effetto sottobosco?».

«Se fosse casa tua non la penseresti ugualmente».

«No di certo, ma essendo tua posso permettermi di farlo!».

«Madame? Ehm... Madame Davies?», l’agente immobiliare tentava di richiamare l’attenzione della donna, ma ella pareva assorta in profonde contemplazioni; dopotutto, aveva una certa età.

«Oh, sì. Mi scusi, Monsieur Yoko: la mia mente si dev’essere assentata per qualche istante». Accompagnò la frase con un gesto aggraziato della mano, la quale dal capo svolazzò altrove. Monsieur Yoko era molto cortese e rispose con un sorriso alle parole di Madame.

«Continuiamo pure il giro».


«Vede, Madame, qui una volta si trovava il tavolo, spazioso, con sei sedie...», la voce del giovane orientale sfumava, mentre quella del ricordo si faceva sempre più vivida.

«Dovremo portare in sala da pranzo le sedie! Non bastano quelle che sono già là!».

«E i tovaglioli? Dove sono nascosti?».

«Insomma, qualcuno si decide a darmi una mano con questo sugo?».

La cucina si era tramutata in un intrecciarsi di braccia, le quali, come rami d’edera, s’impegnavano a prevaricare le une sulle altre reggendo in precario equilibrio bicchieri, pentole e piatti.

L’orologio dalla cornice gialla segnava le otto e mezzo di sera con le lancette.


«Ho fame! Quand’è che si mangia?».

«Calma: niente panico! Non ora per la miseria!».

«Jean, hai del pane? O delle patatine?».

«Ma a cosa vi servono, ora è subito pronto!».

Una miscellanea di odori e un allegro vortice di colori affollavano la stanza ed era sempre più caldo: impossibile visualizzare chi chiedesse cosa o perché.

La mente si annebbiava come il vetro della finestra.


«Coraggio: uscite, tutti quanti! Andate a sedervi in soggiorno. Sciò, sciò!». Amélie gridava tra il chiasso e le risa generali: era leggermente congestionata in viso e le guance brillavano scarlatte.

«Dica, Monsieur Yoko – Madame Davies accennò, parlando, un sorriso, il quale lasciava intravedere i denti regolari simili a fiocchi di neve e, mentre si voltava verso il giovane, una morbida ciocca di capelli candidi sfuggì all’acconciatura – le è mai capitato d’esser investito da ricordi tanto forti da esser incontrastabili? Così nitidi da sovrapporsi con veemenza alla realtà presente?».


L’agente immobiliare sorrise, ma scosse il capo. «No, Madame». Non appariva divertito, ma interessato.

«Certo, d’altronde lei è troppo giovane. Alla sua età non ci si stupisce di ricordare fatti passati. E poi, la vostra mente è più spesso proiettata al futuro, poiché in esso si devono ancora compiere i vostri destini. Come diceva Goethe: “Guardiamo così volentieri al futuro perché vorremmo tanto volgere a nostro favore, con taciti desideri, l’incertezza che in esso si muove».

La donna s’incamminò verso la finestra, baciata sulla guancia destra da un tenero raggio di sole, ed osservò con occhi tristi il giardino.


«A volte nella vita capitano situazioni inaspettate, non trova, Monsieur Yoko? Ad esempio, non avrei mai immaginato di percepire questa casa come ora. Mi appare stanca ed incapace di far risuonare ancora voci e risate: come un’anziana signora, sembra essersi adagiata sotto il peso dei suoi anni, rimanendo sospesa tra l’eterno e la sua caducità.


Un tempo, dove ora si trova lei, vi era un divano e, di fronte ad esso, un tavolino. – sottolineò le parole muovendo la mano orizzontalmente con il palmo rivolto verso il basso, quasi stesse carezzando la superficie lucida di legno scuro del mobile. – Là, invece, appoggiato alla parete, regnava un serio pianoforte nero, il quale sembrava sempre osservare con disappunto le due casse dell’impianto stereo, che si trovavano sulla libreria, anch’essa a ridosso del muro».

Il giovane agente aveva spalancato gli occhi per lo stupore e, anche se non poteva vederlo, Madame lo sapeva.


«Suvvia Monsieur Yoko, non si meravigli. Frequentavo questa casa quando lei non era ancora nato. Eh sì, nemmeno quei tigli là fuori erano così alti: ora pare che vogliano toccare le stelle del cielo, protendendo i loro rami più sottili. Ora lo vedo: persino l’albero dei cachi è rimasto al suo posto! Pensi che d’estate, quando i suoi frutti erano maturi e cadevano, spesso si udivano i sordi tonfi di quei globi dorati precipitati sulla carrozzeria di qualche macchina. Erano così pesanti da lasciare una bella botta!» al pensiero degli automobilisti esasperati le venne da ridacchiare.

«Se posso chiederle, Madame, era casa sua?».


«Mia? No, oh no...», la donna si era rivolta verso il suo interlocutore e scuoteva il capo, quasi divertita da quella domanda, quasi assurda per lei. «Non era casa mia, ma la conoscevo bene: apparteneva ad un amico. Assieme ad altri coetanei abbiamo passato giorni felici qui. Ricordo molti di essi come se fossero stati ieri e la loro intensità mi colpisce ancora, sebbene molte cose si siano frapposte tra me e quel tempo».

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