Stop alla fuga delle imprese nordestine
MILANO. Cara Cina addio, si torna a produrre in Italia. Dopo un ventennio di delocalizzazioni a tappe forzate verso Est che hanno desertificato i territori industriali del Paese, oggi cominciano le operazioni di rientro. Prendete la vicenda di Maschio Gaspardo, il re delle fresatrici di Campodarsego (Padova), che, dopo aver aperto stabilimenti in Cina, Romania e in India, e grazie a un patto con le maestranza sindacali, riprende a investire in Italia, in collaborazione con la famiglia Busolin di Unicka, lanciando un nuovo impianto a Pordenone, 110 dipendenti, adibiti alla produzione di spandiconcime. Ma quello di Maschio Gaspardo non è l’unico caso nel Nordest. C’è anche Fitwell, azienda specializzata in scarpe e scarponi tecnici da montagna, che ha annunciato nelle scorse settimane di voler riportare a “casa”, a Pederobba (Treviso), tutta la manifattura dalla Romania. E ancora nel territorio, spicca la storia in evoluzione di BZ Moda del distretto della Riviera del Brenta, che ha intenzione di rimpatriare buona parte delle scarpe da donna di fascia media oggi affidate agli artigiani del Bangladesh.
Gli americani chiamano il fenomeno reshoring. Ed è uno dei punti di forza dell’amministrazione Obama: riportare a casa l’industria (e quindi i posti di lavoro) grazie a un mix di incentivi ed energia a basso costo, grazie allo sviluppo dello shale gas. Più di 200 multinazionali hanno dichiarato di volere riportare in patria almeno una parte della produzione. Il made in America che torna a casa ha già generato più di 200 mila posti di lavoro in pochi anni. Una goccia nel mare? Forse, visto in soli 15 mesi di recessione dal 2007 al 2009, 2 milioni di americani sono rimasti disoccupati e che buona parte dell’industria di ritorno punterà sull’automazione piuttosto che sull’impiego di massa.
Tuttavia, il migliore alleato dell’occidente a rischio deindustrializzazione è proprio la Cina. Nell’ex celeste impero, i salari salgono al ritmo del 20% l’anno. E secondo i calcoli di Reshoring Initiative, il gruppo di pressione americano per il ritorno dell’industria, manca davvero poco (contando anche le spese logistiche) a riequilibrare i costi tra occidente e Far East. Tanto più che il crescente esercito di disoccupati in patria, vittime delle delocalizzazioni, sta inevitabilmente sottraendo consumi, e quindi fatturati, alle multinazionali. Secondo un sondaggio della Confederation of British Industry (la Confindustria britannica), un terzo delle principali imprese europee ha riportato almeno qualche linea produttiva in patria negli ultimi tre anni, e per quanto riguarda l’Italia, la quota di chi ha rilocalizzato un parte della manufattura si attesta attorno al 29%, mentre un altro 18% sarebbe intenzionata a farlo nei prossimi tre anni. In Italia, a parlare di ritorno in fabbrica sono comunque ancora in pochi. I primi sono stati gli esperti dell’Uniclub Backshoring (con questo termine si intendono sia i fenomeni di ritorno che quelli di avvicinamento produttivo, dalla Cina ai Balani, per esempio), che è un gruppo di ricerca coordinato dall’Università dell’Aquila e composto dagli atenei di Udine, Bologna, Modena e Catania. L’Uniclub ha contato circa 79 aziende che hanno rilocalizzato in Italia la produzione. «E registriamo un’impennata dei casi a partire dal 2009» – dice Luciano Fratocchi, che tuttavia lamenta la mancanza di attenzione da parte della nostra politica. «In Francia e in Olanda, ad esempio, dopo aver colto questa tendenza, i parlamentari hanno scritto delle norme per favorire il rientro di queste aziende». In merito alla questione, la Regione Friuli si sta muovendo da sola, cercando di dare delle risposte ai pacchetti fiscali dedicati alle aziende dalle confinanti Carinzia e Slovenia. La maggior parte delle imprese sulla via del ritorno fanno parte del tessile e dell’abbigliamento, a seguire i terzisti dell’elettronica e della meccanica. Luca Businaro, presidente di Assosport, segnala che il fenomeno del ritorno in patria è particolarmente forte nel settore degli articoli tecnici. A partire dalla sua azienda, Novation di Montebelluna, che sforna prodotti di alta gamma per i big della distribuzione sportiva. «Ora le multinazionali cominciano a chiedere una produzione made in Italy».
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