STIPENDI D’ORO E FANNULLONI

Ultimamente sono apparsi, su questa come su altre testate, interventi che, con vari accenti, toccano il tema dei “fannulloni” nel settore dell'università, polemizzando con asseriti “stipendi d'oro” che i docenti universitari percepirebbero e adombrando lo scandalo di tasse d'iscrizione che – a mo' di ingiusto balzello per tanto spreco – graverebbero sugli studenti. Vedo con preoccupazione il diffondersi di semplificazioni che reputo pericolose, anche quando suffragate da esperienze individuali che suscitano, nelle persone oneste, giusta indignazione.


Si rischia che questioni cruciali e oltretutto interconnesse, come il finanziamento dell'università e la valutazione della stessa in termini di efficienza, si affrontino – anziché nel loro reciproco nesso e all'insegna del criterio ”più risorse a chi dimostra di meritarle” – a colpi di slogan come: ”universitari fannulloni, benvenuti i tagli all'università”, oppure ”meno retribuzioni (d'oro?) e meno tasse studentesche”. Per parte mia, cercherò di fare chiarezza su alcune delle tematiche emerse.


1) Docenti universitari ”fannulloni”. Dire che anche tra i docenti universitari vi sono dei ”fannulloni” è affermazione tanto facile, quanto inconfutabile per eccesso di genericità. Senonché, l'ipotizzare – come suggerito in una lettera più volte pubblicata dal Piccolo, a firma Marlene Penso – che al fenomeno si possa rimediare obbligando i docenti universitari a timbrare il cartellino, dà erroneamente per scontato che i compiti del docente universitario si esauriscano nel perimetro delle strutture universitarie. Così non è, perché l'universitario, oltre alla didattica, è tenuto a fare ricerca scientifica: attività che non sempre può svolgersi tutta in sede. Ciò non significa che siano impraticabili i controlli. A parte l'adempimento dei compiti didattici, già oggi verificabile dai presidi di facoltà, occorrerebbe semmai accertarsi che il docente sia adeguatamente produttivo anche dal punto di vista della quantità e della qualità della sua attività di ricerca. Modelli di verifica di questo genere sono da tempo efficacemente sperimentati in molti paesi. Da nessuna parte, comunque, si riscontrerà che alla vigilanza sul lavoro dei professori si provveda obbligandoli a timbrare il cartellino.


2) Le retribuzioni ”d'oro” dei docenti universitari. Sollevata di recente da una testata nazionale vicina al Governo, la questione della retribuzione dei professori universitari riaffiora qua e là pure da interventi apparsi sulle colonne di questo giornale. Non è mia intenzione assecondare guerre di cifre né esprimere, in modo approssimativo, giudizi di valore sull'adeguatezza degli stipendi dei docenti universitari italiani. Occorrerebbero analisi complesse e idonei confronti con sistemi nei quali sull'università e sulla ricerca si investe in misura degna di un paese avanzato. Confronti di tal genere ridimensionerebbero parecchi dei pregiudizi che circolano sulla stampa nostrana e, con essi, molti degli improvvisati ”terapeuti” e dei sedicenti esperti del sistema universitario nazionale. In ogni caso, faticherei a definire ”d'oro” lo stipendio mensile netto di un ricercatore (euro 1200) o di un professore ordinario (euro 2600) a inizio carriera, quando si consideri che tali importi corrispondono a posizioni che, in Italia, si conquistano in età molto al di sopra della media europea (ben oltre i trent'anni per i primi e tra i cinquanta-sessant'anni per gli altri) e, di regola, a fronte di un lungo e mal pagato impegno scientifico.


3) Spese per il personale e tasse universitarie. Nella confusione, c'è anche chi, sul preteso argomento delle retribuzioni ”d'oro”, insinua che a pagare il prezzo di tanto ”spreco” possano essere le tasche degli studenti (così, l'intervento dello studente Luca Salvati, sul Piccolo del 13 agosto). Che le ”paghe di lusso” (sic!) dei docenti siano la causa della crisi che affligge l'università di Trieste, come gli altri atenei, è per me una vera sorpresa. In anni di esperienza, mi ero convinto infatti che tale stato di crisi dipendesse da un cronico sottofinanziamento del sistema universitario nazionale: condizione acuita dai paradossi di un sistema che mentre obbliga gli atenei a bilanci in pareggio e vieta loro di indebitarsi, demanda la quantificazione delle retribuzioni e dei relativi aumenti annui a un ente (Stato) diverso da quello che li deve erogare (università).


Ora, che questa spirale distorta si traduca in un ”ingiusto” prelievo dalle tasche degli studenti è cosa del tutto smentita dai fatti, per lo meno nella nostra università: si confronti il manifesto delle tasse del prossimo anno accademico con il precedente e si noterà che le differenze sono nient'altro che ritocchi conformi agli indici Istat di incremento annuo del costo della vita. Soluzione, questa, talmente ”morbida” da aver raccolto, non a caso, il favore unanime dei rappresentanti degli studenti del nostro ateneo (Salvati compreso).

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