«Stanno insabbiando il caso di Alina»

La disperazione della madre della giovane ucraina che si è uccisa in un commissariato: «Inchiesta ferma da due anni»
Di Laura Tonero

«Stanno insabbiando tutto, vogliono non far pagare a nessuno la morte di mia figlia. Sono disperata e amareggiata». Sono passati ormai due anni dalla morte di Alina Bonar Diachuk e in questi giorni la madre è tornata a Trieste, nel cimitero di Sant’Anna, a piangere sulla tomba della giovane ucraina. Si era tolta la vita con un cappio al collo legato ad un termosifone il 16 aprile del 2012 all’interno di una stanza di sicurezza del commissariato di Opicina.

La Procura ha aperto un’indagine ma ad oggi «nessuno sa nulla - riferisce la madre che, accompagnata dalla figlia minore, ha portato fiori, dolci e piccoli regali ad Alina - non sono mai stata sentita o contattata. Vogliono far dimenticare la mia Alina. Ogni volta che suona il mio telefono, - continua disperata la donna che affronta ore di viaggio pur raggiungere il cimitero di Sant’Anna - spero sia il mio avvocato che mi comunica che finalmente ci sono delle novità per quanto riguarda l’inchiesta. Invece tutto tace, il mio timore è che nessuno pagherà per la morte di mia figlia».

I primi accertamenti avviati dal pm Massimo De Bortoli avevano evidenziato che Alina non doveva essere trattenuta in custodia dalla polizia. Dal carcere del Coroneo era tornata in libertà il 14 aprile del 2012 dopo aver patteggiato per un’accusa di favoreggiamento all’immigrazione. Avrebbe dovuto essere trasferita subito nel Centro di identificazione ed espulsione di Bologna. E invece, dopo la scarcerazione, era stata prelevata da una pattuglia della polizia e portata nel commissariato di Opicina. E lì parcheggiata in una camera di sicurezza. Due giorni dopo si è impiccata.

«Ad oggi il processo è ancora nella fase delle indagini, - precisa Sergio Mameli, il legale che difendeva Alina e oggi ne rappresenta la famiglia - nessuno ha comunicato ancora la conclusione delle indagini». «Ma non stanno indagando,- accusa invece la madre della giovane che al momento della sua morte aveva 32 anni - non stanno facendo assolutamente nulla».

«Il fatto di aver individuato altri 49 casi simili, - spiega Mameli - non ha dato certamente accelerato le indagini. Solo per fare tutti i capi d’accusa ci vuole molto tempo». Se il caso di Alina fosse stato affrontato singolarmente, la procedura sarebbe sicuramente stata più sbrigativa e oggi, forse, si sarebbe riusciti a far maggior chiarezza su eventuali responsabilità.

Restano indagati l’allora responsabile dell’ufficio immigrazione della Questura, Carlo Baffi e il suo vice Vincenzo Panasiti. Baffi è accusato di sequestro di persona e omicidio colposo. Medesime le accuse a carico di Panasiti.

Nel mirino della Procura sono finiti anche quattro poliziotti addetti alle pattuglie dello stesso ufficio immigrazione. Sono accusati a vario titolo di omicidio colposo, violata consegna e di aver gestito i cosiddetti trasporti e la detenzione nel commissariato di Opicina secondo modalità ritenute fuorilegge dalla Procura. Secondo il pubblico ministero titolare dell’inchiesta, Massimo De Bortoli, era ormai diventata una prassi trattenere gli stranieri scarcerati o clandestini in un commissariato fino al momento dell’espulsione.

Sulla cella dove era rinchiusa Alina, nel commissariato di Opicina, vigilava una telecamera di sicurezza ma nei 40 minuti di agonia della donna nessuno si era accorto di nulla. «Per procedere almeno in sede civile, - spiega l'avvocato Mameli - ho chiesto alla Procura una copia del cd con le immagini delle ultime le di Alina, per capire meglio cosa sia successo. Ad oggi non ho ancora ricevuto nulla».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo