Spuntano le sartorie in tempo di crisi
A Trieste cresce la domanda per le sartorie e continuano a fioccarne di nuove, il più delle volte gestite da cinesi. È una domanda figlia della crisi.
Dopo i tanto discussi negozi che hanno “colonizzato” il Borgo Teresiano, i figli dell’Asia, come segugi, hanno fiutato un nuovo e proficuo affare. In tempo di crisi si comprano sempre meno capi d’abbigliamento, i vestiti si riciclano e si indossano fino a divenire logori e vengono rammendati allo stremo. In altre parole si fa più attenzione a quello che c’è negli armadi.
Come accadeva – e accade - per i rivenditori di vestiario, anche i sarti cominciano ad accusare la concorrenza cinese e il denominatore comune che sottrae lavoro ai triestini, resta sempre il medesimo: il costo di gran lunga inferiore. Un costo che va a discapito della qualità, per opinione comune scadente.
Trapelano voci che i loro prodotti vengano importati dalla stessa Cina a pochi spiccioli e non acquistati da fornitori cittadini o nazionali. Basti pensare che «farsi accorciare un paio di jeans in una qualsiasi sartoria triestina costa in media cinque o sei euro – racconta Donatella de Baseggio, titolare di “Artigiatutto” - mentre il prezzo fisso dai cinesi non supera i due euro. La mia attività ha 26 anni di vita e, mai come oggi – continua la sarta di via Pascoli – si è così piegata alla concorrenza».
La signora rivela persino di avere sentito che i nuovi “taglia e cuci” eseguono i lavori di riparazione sul momento, in qualche decina di minuti, mentre gli storici artigiani della città spendono giorni e giorni per garantire il massimo pregio.
Proprio in via Foscolo (la parallela di via Pascoli), a distanza di una ventina di metri l’uno dall’altro, sorgono due recenti laboratori gestiti da immigrati venuti dal Paese di Mao.
Al numero 4/c si trova la sartoria “Flu”. Il giovane che vi lavora asserisce di abitare in Italia da 15 anni, ma sostiene di capire poco la lingua e di parlarla ancor meno. Con l’improbabile scusa rifiuta di lasciare dichiarazioni, facendo solo sapere di aver aperto l’esercizio più di un anno fa.
In compenso Chiara – una pensionata intercettata mentre stava uscendo dal locale - dice di esserne cliente fissa e di ritenersi soddisfatta del servizio offerto da “Flu”. L’anziana afferma inoltre di essere stata portata così con l’acqua alla gola della crisi, da acquistare ormai solo prodotti dai cinesi.
Pochi passi lungo lo stesso marciapiedi e, al civico 10/a, si incontra la sartoria dal nome italianissimo “Di Maria”. Il titolare parla ancor meno del suo connazionale e sembra arrivato da poco nel Belpaese. Riferisce di aver avviato il negozio a dicembre scorso e di lavorare con discreto successo, ma appena gli si domanda qualche informazione in più, si ritrae subito.
“Cucideas”, piccola sartoria situata all’inizio di viale d’Annunzio, ha perso negli ultimi tempi metà della propria clientela, che si è rivolta alla concorrenza asiatica. «Iniziata l’attività ero piena di lavoro – lamenta l’italo-peruviana Luz Gonzales – ma oggi mi sono rimasti solo i clienti più affezionati, anche se la gente comincia a prendere coscienza della scarsa qualità della manodopera cinese, poiché mi capita di riparare prodotti che essi fanno male».
Intanto i negozi di abbigliamento sono sempre più vuoti (molti sono anche falliti) e le botteghe delle cosiddette mendaresse e sarte rispuntano come funghi.
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