Spese pazze, in cinque di nuovo dal giudice
TRIESTE. Altro che spiccioli. Altro che finalità “istituzionali”. Botte da 20mila a oltre 48mila euro di soldi pubblici scuciti a mamma Regione, senza alcuna giustificazione, non si possono definire “spese minute”. Tanto meno utili alla collettività. Difficile in effetti far passare i viaggi, le vacanze col fidanzato, i cenoni e perfino il barbiere sotto casa per sacrosante necessità politiche. Insomma, i consiglieri regionali non potevano usare la Regione come il proprio bancomat personale. Ma questo accadeva, evidentemente.
Ed eccole qua, più chiare che mai, le motivazioni con cui a febbraio la Cassazione aveva parzialmente riaperto il processo di “rimborsopoli” annullando il “non luogo a procedere” pronunciato dal gup di Trieste Giorgio Nicoli il 18 aprile dell’anno scorso per cinque dei ventidue consiglieri finiti nel vortice dell’inchiesta giudiziaria scoppiata a fine 2012. Sono i giorni del blitz della guardia di finanza in piazza Oberdan. I giorni in cui un capogruppo leghista viene pizzicato in ufficio mentre distrugge in un tritacarte i documenti. Per cinque dei prosciolti sia il procuratore generale che il pubblico ministero erano tornati alla carica tentando un primo ricorso alla Suprema Corte per il rinvio a giudizio di Daniele Gerolin (Pd), Federico Razzini, Enore Picco della Lega Nord, Mara Piccin e Roberto Asquini del Gruppo misto.
I giudici della Cassazione, con la loro sentenza, hanno ritenuto più che fondate le ragioni tanto del pg quanto del pm e hanno deciso di trasmettere gli atti al gip di Trieste per «l’ulteriore corso». Vicenda, dunque, tutt’altro che chiusa: le carte devono tornare a un altro gup che valuti l’eventuale rinvio a giudizio (per i 12 assolti dei 22 si deve invece andare ancora in Appello). Nella lista dei nomi non compare più Elio De Anna: se ne deduce, afferma il legale Luca Ponti, che per l’ex assessore la sentenza è di assoluzione definitiva. Le “spese pazze” si riferiscono comunque al biennio 2010-2012 e pure quella volta, nonostante l’aula non si fosse dotata di norme precise per regolamentare il sistema dei rimborsi, sussisteva un «generale obbligo di giustificazione» su come usare il denaro che, anzi, avrebbe dovuto essere impiegato per «le precipue finalità istituzionali».
Dicono questo adesso gli ermellini, ribaltando di fatto gli assunti del gup Nicoli secondo il quale invece i politici erano privi di un obbligo di rendiconto analitico sui soldi che si facevano restituire dalle proprie segreterie. Permettere ciò solo perché all’epoca dei fatti il sistema era «ambiguo», non basta, insiste la Cassazione, secondo cui dire questo «è fumoso». I giudici citano gli articoli 3, 81, 97, 100 e 103 della Costituzione in cui sono riportati altri “principi”.
Il verdetto li eleca: ogni tipo di spesa pagata con i soldi dei contribuenti deve rientrare in una cornice normativa. Detta in altri termini, deve avere una finalità ben delineata, in questo caso “istituzionale”, ed essere autorizzata. E pure vigilata. Qualsiasi esborso, inoltre, deve rispettare i principi di «uguaglianza, imparzialità, economicità, efficienza, efficacia e trasparenza».
Alle spese dei gruppi, comprese quelle bollate come “riservate”, non si può quindi riconoscere una gestione incontrollata. Aver poi restituito i soldi perché «presi per errore», come ha fatto qualcuno, non basta. Non sarà questo a salvare i consiglieri dal nuovo round perché, annota il verdetto, «eventuali azioni riparatrici sono irrilevanti ai fini dell’esenzione da responsabilità per peculato». In sintesi: il reato rimane, nonostante il rimborso. Il nastro ora si riavvolge e Razzini ad esempio dovrà trovare il modo di spiegare perché si è fatto rimborsare le vacanze in hotel a Venezia e i soggiorni al mare e in montagna. Per lui e la sua compagna.
E dovrà anche spiegare quelle “spese minute” da 40mila euro che non convincono i giudici. Per non parlare di Picco, che dovrà render conto di altri 20mila euro usciti dalle tasche della Regione «privi di qualsivoglia documentazione». Stesso discorso per Piccin a cui si domanda di giustificare 48mila euro per le «generiche» consulenze del partner Paolo Iuri, precisa la Cassazione. Pure lui, rileva il verdetto, andava a spasso in Croazia tra terme e hotel spesati dai contribuenti. E, ancora, Asquini: per i suoi ripetuti viaggi ai saloni dell’automobile in Europa e Usa. Infine Gerolin: anche per il consigliere dem le carte devono ritornare al gip.
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