Sospetti su Vittorio Vidali: era il Grande vecchio delle Br?

La rivelazione arriva da «Terrore a Nordest», il libro scritto da Giovanni Fasanella e Monica Zornetta
di Alessandro Mezzena Lona
Di Vittorio Vidali si è detto di tutto. Lo accusavano di aver fatto parte del commando che uccise in Messico Lev Trotzkj. Dissero perfino che era stato lui a far morire, in una notte del gennaio 1942 a Città del Messico, Tina Modotti, la fotografa e attrice di origine friulana che per anni era stata sua compagna. Ma adesso prende forma il sospetto che il comandante Carlos, morto il 9 novembre del 1983, figura storica del Partito comunista triestino, sia stato molto vicino ai vertici delle Brigate Rosse.


La clamorosa ipotesi arriva da un libro-inchiesta intitolato «Terrore a Nordest» scritto da Giovanni Fasanella, inviato di «Panorama» e autore di saggi sugli anni del terrorismo, e da Monica Zornetta, che collabora con la rivista «Narcomafie». Pubblicato da Rizzoli (pagg. 300, euro 9,60) nella collana Futuropassato, arriva nelle librerie domani.


Nel libro, Fasanella e Zornetta partono da un presupposto inquietante: la strategia della tensione e i movimenti terroristici di destra e di sinistra hanno preso tutti forma tra il Veneto, il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia. Legando il ricordo della Resistenza, della lotta al nazifascismo, della Repubblica di Salò, al nostro tormentato, recente passato. E a un futuro fatto di grandi incertezze.


«La voce che Vittorio Vidali fosse stato vicino alle Brigate Rosse circolava da parecchio tempo - spiega Giovanni Fasanella -. Se ne parlava, così, ma mancavano i riscontri precisi. Quest’anno, ad aprile, ”Panorama” ha pubblicato un mio articolo intitolato ”I brigatisti senza nome che interrogavano Moro”».


Che cosa raccontava in quel pezzo?

«Di un vecchio documento inserito tra gli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giovanni Pellegrino. Un’informazione mai passata alla magistratura. Conteneva la trascrizione di un colloquio sul caso Moro tra alcuni brigatisti rossi detenuti, che erano stati intercettati dai Servizi italiani nell’estate del 1979».


Dialoghi scottanti?

«Ignari di esseri ascoltati, i brigatisti dicevano chiaro e tondo che a interrogare Moro nella ”prigione del popolo” non erano stati i loro compagni che avevano messo a segno il sequestro. Bensì un gruppo di persone diverse».


Lei non faceva nomi...

«No, però mi arrivò ben presto una telefonata. Una voce flebile che aveva alcune cose da dirmi a proposito dell’articolo. Quella voce apparteneva a Luigi Cardullo, che era stato direttore del supercacere dell’Asinara. Gli diedi appuntamento a Milano nella sede della Mondadori».


Era lui l’autore delle intercettazioni?

«Sì e mi raccontò che non era stato uno solo il colloquio captato tra le mura dell’Asinara. Per due anni e mezzo di fila, dall’estate del 1978 alla fine del 1980, Cardullo aveva ascoltato ogni conversazione tra i capi brigatisti che in quel periodo erano detenuti all’Asinara».


Chi gli aveva dato l’incarico?

«I Servizi segreti e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, al tempo responsabile del Nucleo antiterrorismo».


Come è saltato fuori il nome di Vidali?

«Tra le tante notizie, una mi è sembrata più sconvolgente delle altre. Nelle conversazioni intercettate si parlava di almeno tre personaggi italiani insospettabili che sarebbero stati molto vicini ai vertici delle Br. Due di loro venivano affettuosamente chiamati il Vecio e la Zia».


Il Vecio era il comandante Carlos?

«Cardullo non ha fatto nomi. Però chi poteva essere un triestino, deputato del Pci nel 1958, senatore nel 1963, uomo di mille battaglie internazionali in contatto con la Polizia politica sovietica?».


Vidali è morto il 9 novembre del 1983: perché in quegli anni nessuno lo ha mai messo sotto accusa?

«Il suo nome non è mai stato neppure sfiorato dalle inchieste giudiziarie sul terrorismo di sinistra. Ma ha fatto capolino diverse volte nei documenti della Commissione guidata da Pellegrino. In particolare, una relazione molto ben fatta e documentata di Gian Paolo Pellizzaro tira in ballo il comandante Carlos e soprattutrto il Soccorso Rosso».


Lo avrebbero coperto, insomma
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«Lo stesso Cardullo è convinto che tra forze politiche, magistrati e apparati dello Stato ci sia stato un patto per delimitare i confini della ”verità dicibile”. In parte, forse, quello era il prezzo da pagare ad alcuni ambienti intellettuali in cambio di informazioni utili nella lotta contro il terrorismo».


Che idee vi siete fatti sulla Zia?

«Cardullo dice che era una dirigente del Soccorso Rosso italiano degli anni Settanta, personaggio molto in vista che, in quel periodo, teneva i contatti con i carcerati».


Ma è vero che Trieste, il confine con la Jugoslavia, il Triveneto più in generale, sono stati l’incubatrice del terrorismo italiano?

«È quello che cerchiamo di spiegare nel nostro libro. Bisogna partire dal cuore della Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre del 1943, dalla Resistenza, per capire il fenomeno del terrorismo. Noi prendiamo un episodio simbolo di questo confuso, tragico periodo, per spiegare tutto: il massacro dei partigiani bianchi della Osoppo alle malghe di Porzús da parte dei comunisti della Garibaldi guidati dal comandante Giacca».


Cosa c’entra quella vecchia, tristissima storia?

«Da lì si evidenzia una frattura profonda all’interno dello stesso fronte antifascista. Perché la paura della Jugoslavia di Tito, che voleva annettere Trieste e il Friuli, e dell’Urss, pronto ad arrivare fino alla Pianura Padana, fa nascere progetti per la difesa dell’Italia. Gruppi di persone armate addestrate come quelle di Gladio. Ma anche frazioni più nascoste che facevano capo al ”principe nero”, Junio Valerio Borghese, e che prendevano come modello la Decima Mas».


E la sinistra?

«I comunisti erano pronti alla rivoluzione, d’accordo con l’Unione Sovietica. Molti anni dopo proprio Giacca, che comandò la strage di Porzús, lo troviamo a dialogare sulla rivista ”Rivoluzione” del centro sociale Gramigna di Padova. Alla domanda ”Quando inizieresti la rivoluzione?”, rispondeva: ”Io inizierei subito, non domani”».


Il Nordest laboratorio di terrorismi?

«Si è visto di tutto. Perfino gli attentati a raffica in Alto Adige dagli anni Sessanta in poi. Terroristi, infiltrati, provocatori. Quella fu una sorta di prova generale della strategia della tensione, amplificata più tardi in tutta Italia».

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