Sit-in di protesta al ristorante giapponese di Gorizia: "Qui ci sfruttano"
Otto lavoratori pakistani di Sushiko incrociano le braccia: «I nostri diritti non vengono rispettati». Allertati i carabinieri: ora indagano
La protesta dei dipendenti di Sushiko a Gorizia (Bumbaca)
GORIZIA Sit-in di protesta ieri mattina davanti al ristorante giapponese Sushiko di via Trieste. Protagonisti otto dipendenti pakistani del locale, che lamentano il mancato rispetto dei loro diritti di lavoratori da parte della proprietà e le condizioni in cui sono chiamati ad operare. Dipendenti che per questo si sono rivolti anche ai carabinieri, che ieri sono arrivati sul posto e hanno avviato un’indagine con gli uomini dell’Ispettorato del lavoro e della Compagnia di Gorizia, dalla quale, pare, emergerebbero delle prime irregolarità.
I carabinieri davanti a Sushiko
Ma andiamo con ordine. Ieri all’ora di apertura del ristorante giapponese – gestito però da titolari di origine cinese –, intorno a mezzogiorno, la clientela si è trovata di fronte ad una scena insolita, con otto giovani uomini con la divisa di Sushiko schierati di fronte all’entrate, con in bella vista una serie di cartelli recanti slogan come “Nostro lavoro”, “Nostri diritti”, “No rubare nostro lavoro”. Parole eloquenti circa il messaggio che i dipendenti volevano dare ai loro titolari ma anche agli avventori. E parole chiarite ulteriormente dalla voce di Ehtesham Bhutta, 30enne capo cameriere che, conoscendo meglio di altri l’italiano, si è fatto portavoce della protesta. «Buona parte della nostra squadra lavora qui da cinque mesi, e lo fa bene, con ottimi risultati e la soddisfazione dei clienti – racconta il giovane –. Anzi, rispetto all’orario previsto restiamo sempre di più, nove o dieci ore al giorno, e siamo chiamati a svolgere compiti che non sono propri delle nostre mansioni, persino fare le pulizie. Non abbiamo ferie né malattie, visto che se qualcuno resta a casa perché non si sente bene, la settimana successiva salta il giorno di riposo. Come se non bastasse, non abbiamo ancora ricevuto lo stipendio di novembre e la tredicesima che ci spetta da contratto, perché la titolare dice che non ci sono soldi. Siamo stanchi, e abbiamo fatto presente alla titolare del ristorante di voler vedere tutelati i nostri diritti di lavoratori».
Questo, stando alle dichiarazioni dei giovani – quasi tutti sono sotto o attorno alla trentina, e tutti sono di origine pakistana –, avrebbe portato ad una serie di conseguenze e cambiamenti nell’atteggiamento della proprietà. In particolare, «da due giorni siamo stati invitati a restare a casa, e ci è stato detto che potevamo andare in ferie per un paio di settimane», spiega ancora Ehtesham, precisando che la cosa finirebbe per mettere la parola “fine” sull’esperienza lavorativa di alcuni di loro (quattro, nel dettaglio) che hanno il contratto a tempo determinato in scadenza proprio a fine dicembre.
«C’è dell’altro – conclude il capo cameriere –: il nostro contratto prevede anche il vitto e l’alloggio, ma i pasti li dobbiamo consumare al ristorante. Così in questi giorni in cui non lavoriamo, di fatto, non abbiamo la possibilità di mangiare, ed è da un paio di giorni che ci nutriamo con latte e qualche biscotto». Tutti aspetti, questi, che vengono smentiti puntualmente dalla proprietaria cinese, Gianni Lin, che ieri ha ribadito le sue ragioni anche agli uomini dell’Arma che hanno fatto visita al ristorante. Resta però la rabbia dei dipendenti, preoccupati ora soprattutto per il loro futuro. «Abbiamo scelto di parlare perché non possiamo più sopportare in silenzio: siamo come animali che vengono sfruttati per il profitto del ristorante, e vogliamo essere rispettati – dicono –. Ma ora come vivremo? La verità è che si approfitta della disperazione di molti di noi, del fatto che c’è chi ha bisogno assoluto di lavorare per vivere e soprattutto poter rinnovare il permesso di soggiorno. E se qualcuno lascia, ci sarà sempre qualcun altro pronto a rimpiazzarlo. Noi non vogliamo che il ristorante chiuda o creare problemi, ma solo vedere tutelati i nostri diritti». –
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